
(DI DONATELLA DI CESARE – ilfattoquotidiano.it) – Dopo la morte di Socrate, condannato dalla città come “cattivo maestro”, Platone lascia Atene sconfortato. Ma poi fa presto ritorno fondando l’Accademia, un luogo dove i filosofi possono pensare senza correre troppi rischi. È una sorta di asilo, con la sua sacralità, attiguo però alla polis, che della filosofia, dunque, non riesce a sbarazzarsi. Non si dovrebbe mai dimenticare questa lontana origine greca quando si parla oggi di università. Certo i nostri atenei provengono direttamente dal modello edificato nella modernità tedesca – di Kant e Humboldt – dove si profila una comunità di ricerca e insegnamento caratterizzata dall’assenza di censura, il dibattito libero, il rifiuto del conformismo. La differenza sta nello sforzo successivo di allargare quella comunità ai figli dei poveri, delle classi disagiate, e in seguito a ogni minoranza, per concedere così a tutti il diritto allo studio. Improntata all’uguaglianza e votata all’apprendimento, all’indagine e alla riflessione, l’università avrebbe dovuto essere una comunità alternativa, più libera e avanzata di quella attigua della città, quasi un esempio da seguire. Spesso gli eventi storici – nel bene e nel male – hanno investito anzitutto quello spazio. L’Italia ricorda l’obbrobrioso capitolo del 1938 quando, per via delle “leggi razziali” emanate dal regime fascista, gli ebrei furono epurati e banditi.
Oggi le università europee, che al contrario di quelle americane hanno resistito alla privatizzazione, sono da tempo sotto attacco. Tra parole altisonanti e un’incomprensibile neolingua burocratica, la catena di riforme (più o meno opportunistiche) che si sono susseguite ha ridotto l’università a un’azienda, dove il criterio dell’eccellenza è diventato la produttività. La “fabbrica dei saperi”, in cui tutto si misura e si controlla con il gergo bancario dei crediti, si è piegata al mercato del lavoro. Se è necessario guardare allo sbocco professionale, ancor più imprescindibile è sottrarre lo studio a finalità esterne. La sterzata imprenditoriale ha favorito i dipartimenti di discipline tecno-scientifiche, dove si concentrano gli investimenti di capitali. L’opposto è avvenuto per le materie umanistiche sempre più messe in discussione. A che pro studiare antropologia e perché mai concedersi il lusso del sanscrito? Una parte del degrado culturale viene da qui.
La questione, come si vede in questi giorni, è politica. Il nodo sta nel rapporto tra l’università e i poteri esterni – governativi, economici, mediatici, ecc. –. L’università è il luogo (l’ultimo?) della resistenza. In uno splendido saggio del 2001 il filosofo francese Jacques Derrida sottolineava l’esigenza della libertà incondizionata di dire e interrogare, che è l’unico fulcro dell’università. Non possono esserci censure o richieste di professione di fede. Cittadella della resistenza critica, l’università, che non può fare a meno della filosofia, è il luogo della disobbedienza civile, che richiede “immunità”, perché il suo interno è inviolabile. Ogni limitazione al dire e al domandare, come ogni intervento esterno, è un attacco alla democrazia. Ma questa cittadella, che non ha potere in proprio e deve restare eterogenea al potere, è purtroppo esposta, senza difese, e rischia di arrendersi senza condizioni a interessi esterni. Anzitutto quelli delle aziende che, con la scusa di “sponsorizzare”, guardano ai propri profitti.
Non stupisce che la guerra irrompa ora nelle università. E lo faccia in modo subdolo, tra fondazioni apparentemente innocue (come Med-Or di Leonardo) e progetti di ricerca tecnologica i cui scopi bellici sono spesso occultati da finalità civili. È indispensabile per questo la vigilanza e si deve essere grati a coloro che – gli studenti con le loro proteste – denunciano accordi di cooperazione tecno-militare, stipulati addirittura solo da governi, quasi cancellando l’università. Questo riguarda Israele come altri Paesi che possono essere implicati.
Proprio perché considero l’università la cittadella della resistenza incondizionata sono contraria a ogni censura. Non potrei perciò neppure lontanamente immaginare di “boicottare” in questo momento una mia collega filosofa dell’Università di Haifa, cittadina israeliana, la quale ogni giorno si batte contro il governo di Netanyahu. Come lei ce ne sono altre e mi chiedo semmai come sostenerle, come appoggiare la loro parola critica e trasgressiva che rischia intimidazioni e limitazioni. Anche questa è la via della pace.
Il pericolo dell’accademismo è la chiusura della cittadella che deve essere invece sempre aperta alla polis. In questo senso si può dire che c’è resistenza dove c’è riflessione critica, c’è università dove c’è la domanda aperta, la trasgressione che stimola il dibattito.
Insomma, non facciamo embarghi ad Israele.
Poteva anche dirlo prima.
I crediti da moh che sono diventati un motivo per trasformare l’università in un esamificio (che altro è, una struttura dove devi dare 12 esami all’anno?). E gli studenti che seguono quel percorso si laureano e tirano dritto, manco ti guardano in faccia perché mirano giustamente alla propria carriera, ma senza importarsi di null’altro, proprio nel momento migliore per la loro libertà di scelta.
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articolo imbarazzante
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