
(di Stefano Baudino – lindipendente.online) – Era il 2018 quando il Parlamento, con una decisione storica, introduceva per legge la progressiva riduzione, fino alla completa abolizione – prevista per il 2022 -, dei contributi diretti a favore di determinate categorie di realtà editoriali. Una norma che, in Italia, è però rimasta lettera morta, poiché i suoi termini sono stati di volta in volta differiti. Ogni anno, infatti, continuano a piovere finanziamenti statali sulle casse dei giornali che si dichiarano pubblicati da cooperative, enti senza fini di lucro o di minoranze linguistiche, nonché su quelle di imprese radiofoniche che svolgono “attività di informazione di interesse generale” come Radio Radicale, da sempre politicamente in prima linea contro l’ottica degli interventi pubblici in economia. Una battaglia che, evidentemente, viene meno quando di quelle succulenti risorse si può direttamente beneficiare.
Il dipartimento per l’informazione e l’editoria del governo italiano ha recentemente pubblicato l’elenco dei giornali a cui è stato confermato per l’anno 2022 il diritto al “contributo pubblico diretto”, cioè il finanziamento pubblico che la legge prevede per i giornali che si dichiarino pubblicati da cooperative di giornalisti o da società senza fini di lucro, o che siano espressione di minoranze linguistiche. In tutto si tratta di quasi 200 testate: a guidare la classifica degli organi di informazione che godono di maggior sostegno pubblico è il quotidiano in lingua tedesca della provincia autonoma di Bolzano, Dolomiten, con oltre 6,1 milioni di euro, seguito dal settimanale Famiglia Cristiana (6 milioni) e dal quotidiano cattolico Avvenire (5,7 milioni). Tra le testate che si avvalgono di tali contributi ci sono anche Il Manifesto (3,28 milioni) e Libero, giornale fondato da Vittorio Feltri e attualmente diretto dall’ex radicale ed ex portavoce di Silvio Berlusconi Daniele Capezzone – definitosi da sempre «liberale, liberista e libertario» –, che dallo Stato incamera ben 3,3 milioni (una settantina quelli complessivi dal 2003). Con 2,08 milioni di euro, si colloca invece all’undicesimo posto della classifica un’altra testata che vede tra le sue fila insigni esponenti del giornalismo cosiddetto “liberista”, Il Foglio, fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa. 63,55 sono, in questo caso, i milioni raccolti dal lontano 1997. Al computo dei finanziamenti alla stampa occorre aggiungere i sostegni definiti “indiretti”, veicolati attraverso sconti sull’acquisto della carta o sgravi fiscali per chi acquista la pubblicità sui quotidiani cartacei. Nel 2021, essi sono complessivamente ammontati a 290 milioni di euro.
Solo un mese fa, grazie a emendamenti bipartisan al decreto legge Milleproroghe approvati dalle commissioni Bilancio e Affari costituzionali della Camera, è stata ufficialmente prorogata la moratoria per la riduzione e l’abolizione dei contributi diretti alle imprese editrici di quotidiani e periodici stabilita nel 2018 come bandiera del Movimento 5 Stelle, all’epoca appena salito al governo. Essa è infatti slittata di altri due anni rispetto a quanto già decretato dalle precedenti proroghe, precisamente dal 2025 al 2027. A esultare sono stati partiti di centrodestra – in particolare la Lega -, ma anche, dall’altro lato dell’emiciclo, il Partito Democratico e Alleanza Verdi-Sinistra, che ha rivendicato la paternità dell’emendamento. Una proposta che, a detta dei suoi artefici, «tutela il pluralismo dell’informazione», garantendo contributi «per i giornali in cooperativa, come Il Manifesto», nonché «per Radio Radicale», emittente radiofonica diretta da Giovanna Reanda, di proprietà dell’Associazione Politica Lista Marco Pannella e collegata al Partito Radicale.
La questione dei finanziamenti a Radio Radicale era finita al centro di un aspra diatriba tra i due azionisti del governo Conte I nel 2019, quando la Lega, insieme alle opposizioni, votò a favore di un emendamento proposto dal Partito Democratico al “decreto Crescita” (art. 30-bis), che stanziò «un contributo di 3 milioni di euro per l’anno 2019» per garantire «la conversione in digitale e la conservazione degli archivi multimediali» di Radio Radicale, a cui il Movimento 5 Stelle voleva invece togliere i finanziamenti. Dal 1990 al 2012, Radio Radicale ha potuto godere del finanziamento pubblico all’editoria in qualità di “organo di un partito politico”, dal 2013 a oggi in quanto impresa radiofonica privata che ha svolto “attività di informazione di interesse generale”; parallelamente, essa ha giovato di un finanziamento per la trasmissione delle sedute del Parlamento – che si aggiudicò nel 1994 dopo aver vinto una gara come unica partecipante – grazie a una convenzione sottoscritta con il ministero dello Sviluppo economico (Mise). L’accordo fu confermato nel 1998, inaugurando un regime di transitorietà durato, di fatto, fino a oggi. Dal 1990, la liberista Radio Radicale ha ricevuto finanziamenti statali per la cifra monstre di oltre 300 milioni di euro.
Come testimonia il contenuto di un’intervista video pubblicata sul portale ufficiale dell’impresa radiofonica, lo scorso dicembre il giornalista parlamentare di Radio Radicale Gianfranco Palazzolo si è recato da Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati di FDI, al fine di «ringraziare» il politico «per aver svolto un ruolo determinante e importantissimo» per Radio Radicale, che potrà avvantaggiarsi dell’ennesima proroga della Convenzione, ricordando che la stessa premier Giorgia Meloni «si è spesa in prima persona per Radio Radicale». «Purtroppo non siamo usciti ad arrivare adesso a una soluzione definitiva, ma questa proroga dà la possibilità di costruirla», ha dichiarato Mollicone.
Già fanno i proci cubo dell’ altri🤫
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La cosa assurda è che i soliti che “capiscono tutto” attaccano Conte/M5S anche per questa storia dei finanziamenti ai giornali.
Se non sono stati aboliti, dicono, allora il M5S ci ha ingannati! E i fessi abboccano.
Non è difficile da capire che se dal 33% i sondaggi ti danno alla metà dopo un anno, con elezioni locali che non ti premiano, non hai più la forza dei numeri per importi sull’alleato di turno come nel primo anno di governo. L’alternativa era andare a elezioni anticipate e ritornare alla comoda poltrona dell’opposizione. Ma anche questa alternativa, giusta o sbagliata che sia, non tiene conto della volontà degli eletti. Cioè, se Conte avesse scelto la strada delle elezioni anticipate, siete sicuri che i parlamentari l’avrebbero seguito sapendo che almeno metà di loro non sarebbe stato rieletto?
Io credo che buona parte avrebbe lasciato il M5S per non terminare in anticipo il loro ben retribuito mandato.
Un capo partito, chiunque sia, deve fare compromessi anche con i propri “soldati”, altrimenti la battaglia è persa in partenza.
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Ragionevole ciò che scrivi; il punto è che il 17% (33 di un pò di tempo fa-16 più o meno quelli di oggi) non la pensa come te.
Continuasse a fare compromessi; se gli elettori aumentano vuol dire che è sulla strada giusta; diversament, no.
Il tempo è galantuomo dopo tutto
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