
(di Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina – corriere.it) – Fino a 10-15 anni fa, i Paesi del Golfo erano considerati niente di più che i «benzinai del mondo». Regni governati da emiri e sceicchi in affari con l’Occidente, quasi solo per il petrolio; despoti attenti agli equilibri regionali, ma sostanzialmente indifferenti alla grande politica internazionale. Oggi Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar sono al centro di cruciali partite geopolitiche ma, nello stesso tempo, continuano a essere monarchie ereditarie che negano ai cittadini il diritto di voto e di libera espressione; oppure la possibilità di costituire partiti o sindacati. In questi tre Paesi si applica la sharia, la legge di derivazione islamica, sia pure con diverse sfumature. Le donne non sposate restano soggette a un «tutore» maschio che deve acconsentire al loro matrimonio. La moglie deve obbedire al marito e non può chiedere il divorzio. Inoltre sono previste punizioni severe per gli omosessuali, anche la pena di morte, non applicata però negli ultimi anni (qui il Dataroom sulla pena di morte).
Zero diritti e terrorismo
In Arabia Saudita per i reati che prevedono la pena capitale è ammessa anche la decapitazione con la spada. Nel 2023 ci sono state 170 esecuzioni, contro 147 nel 2022. Il 24 gennaio 2024 l’Agenzia delle Nazioni Unite per i diritti umani ha diffuso un rapporto che contiene 354 raccomandazioni che il regime di Riad dovrebbe adottare per garantire i diritti politici e civili a tutta la popolazione. Secondo l’intelligence americana, il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammad bin Salman Al Saud, sarebbe stato il mandante dell’omicidio premeditato di Jamal Khashoggi, giornalista dissidente e columnist del Washington Post, letteralmente fatto a pezzi nel consolato saudita a Istanbul il 2 ottobre del 2018. Per anni gli americani hanno sospettato che l’Arabia Saudita fosse tra i finanziatori del terrorismo islamico. Ma gli ultimi rapporti del Dipartimento di Stato, diffusi nel 2022, sottolineano come sia l’Arabia Saudita sia gli Emirati Arabi abbiano iniziato a collaborare con gli organismi internazionali per bloccare i finanziamenti alle formazioni fondamentaliste. Tutto dimenticato. Evidentemente neanche gli Stati Uniti, ormai, possono fare a meno della nuova centralità geopolitica ed economica dell’Arabia Saudita. Lo stesso discorso vale anche per il Qatar, che invece continua a finanziare i Fratelli musulmani, i terroristi di Hamas e una miriade di sigle che fanno capo all’Iran.
La carica degli eredi
La svolta va fatta risalire ai primi anni Duemila, quando una nuova generazione si affaccia al potere nel Golfo. Uno dei personaggi chiave è il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman Al Saud, 38 anni. Più o meno nello stesso periodo, negli Emirati emerge Mohammed bin Zayed Al Nahyan, 62 anni, diventato sovrano di fatto nel 2014. Entrambi sono stretti alleati in politica estera, ma anche rivali per il primato personale nella regione. Il loro avversario comune è stato a lungo il terzo leader del Golfo, lo sceicco del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, 43 anni. Dal 2017 al 2021 Arabia Saudita ed Emirati Arabi hanno interrotto i rapporti diplomatici con il Qatar, imponendo anche l’embargo economico. Motivo? Il Qatar ha sempre mantenuto relazioni con le componenti fondamentaliste del mondo islamico, considerate insidie destabilizzanti da sauditi ed emiratini. Nel 2021, però, anche grazie alla mediazione americana, i tre Paesi ristabilirono normali relazioni. Il Qatar ospita la base militare americana più grande della regione: per Washington era urgente tornare alla stabilità.
L’assalto al mondo
Il cambio di passo è stato soprattutto economico. Alla cultura della rendita basata su petrolio e gas, i nuovi eredi hanno affiancato altro. Bin Salman, per esempio, ha convogliato una massa enorme di petrodollari, stimata tra i 400 e gli oltre 700 miliardi di dollari, nel Pif, il fondo sovrano Public Investment Fund. Con questa leva finanziaria ha attivato investimenti in energie rinnovabili, trasporti, fabbriche automatizzate, società del digitale, turismo, servizi sanitari. Le risorse finanziarie servono anche da incentivo per attirare almeno 3 mila miliardi di dollari dall’estero. Si sono già fatti avanti alcuni grandi fondi di venture capital americani come Andreessen Horowitz, Kkr, Apollo Global Management. Gli Emirati seguono una simile politica di incentivazione e fanno affari praticamente con tutti: Stati Uniti, Cina, Russia, Turchia, Unione europea (in particolare Francia e Italia). Di recente hanno riaperto i canali commerciali con l’Iran. Il Qatar ha intensificato il business con Usa, Paesi europei (specie Francia e Italia), Turchia. Lo sforzo economico è stato accompagnato da intense operazioni di marketing sociale e culturale. Qualche esempio. L’Arabia saudita ha reclutato le star del calcio mondiale e ha appena ottenuto l’assegnazione dell’Expo 2030. Il Qatar è riuscito a imporre in casa propria i Mondiali del 2022, vinti dall’Argentina di Messi. Gli Emirati si sono aperti all’Opera italiana, ospitando il primo dicembre 2023 l’Orchestra del Teatro alla Scala e il 23 gennaio scorso il Puccini Opera Gala. Tutte iniziative che veicolano operazioni diplomatiche da non sottovalutare.
Il nuovo crocevia
Piano piano Arabia Saudita, Emirati e Qatar sono diventati un punto di riferimento mondiale. Gli Emirati, per esempio, si erano candidati per ospitare la Cop28, che si è tenuta a Dubai dal 23 novembre al 13 dicembre 2023 (qui il Dataroom sulle Cop sul clima). Nessuno ha avuto obiezioni, anche se il Paese è il sesto produttore di petrolio nel mondo. In parallelo è iniziata la normalizzazione dei rapporti con Israele, con i cosiddetti «Accordi di Abramo». I primi a firmare il protocollo sono stati il Bahrain e gli Emirati Arabi il 13 agosto 2020. Poi il Marocco il 10 dicembre 2020 e il Sudan il 6 gennaio 2021. Ma i veri artefici dell’operazione sono stati il principe saudita bin Salman, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex presidente Usa Donald Trump, o meglio, il suo genero-consigliere Jared Kushner. L’attacco terroristico di Hamas (7 ottobre 2023) ha bloccato la firma finale che prevedeva il riconoscimento ufficiale di Israele da parte di Riad, in cambio di una serie di intese commerciali e, soprattutto, la clausola che imponeva agli americani di garantire la protezione militare dell’Arabia Saudita.
Il gioco su più tavoli
Gli Stati Uniti restano il punto di riferimento per la sicurezza militare dei Paesi del Golfo. Ma non hanno più l’esclusiva. L’Arabia Saudita, per esempio, acquista il 73% del proprio fabbisogno di armi dagli Usa. I contratti di fornitura in corso stipulati con l’industria bellica americana ammontano a 126,6 miliardi di dollari. Ma ciò non impedisce al principe bin Salman di coltivare rapporti con tutti gli avversari di Washington. Il 6 dicembre 2023 l’erede al trono saudita ha accolto calorosamente Putin a Riad, ignorando il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale, per discutere come moderare la produzione di petrolio in modo da evitare il tracollo dei prezzi. Il giorno prima Putin ne aveva parlato anche con il presidente emiratino Al Nahyan, facendo tappa ad Abu Dhabi. Ma non è solo una questione di greggio. Dal primo gennaio 2024 Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono entrati a far parte dei Brics, il gruppo alternativo all’Occidente formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Oltre ai due Paesi del Golfo sono stati ammessi nel club Iran, Egitto ed Etiopia. Hanno progetti ambiziosi. Uno su tutti: puntare su una moneta comune che possa scalzare il primato finanziario mondiale del dollaro.
Rete multiuso
Proviamo allora a seguire la rete geopolitica tessuta da sauditi ed emiratini. Sono stretti alleati degli Usa, ma hanno offerto una sponda preziosa a Putin, non solo ignorando le sanzioni imposte dall’Occidente dopo la guerra in Ucraina, ma sostenendone anche le quotazioni del greggio. Usano i dollari, ma hanno accettato il sodalizio con la Cina, il Paese leader di fatto dei Brics. Riconoscono il diritto all’esistenza di Israele ma, grazie alla mediazione di Pechino, hanno aperto all’Iran che vorrebbe cancellare lo Stato ebraico dalla cartina geografica. Il Qatar si spinge ancora più in là: ospita la più grande base americana della regione (15 mila militari nello scalo aereo di Al Udeid) e, nello stesso tempo, passa circa 30 milioni di dollari all’anno ad Hamas. Nel gergo diplomatico questo tipo di politica estera si definisce «multivettoriale». Nel gergo comune si chiama «opportunismo senza limiti». Nel vuoto giuridico, viste la sostanziale paralisi dell’Onu e l’inefficacia dei Tribunali internazionali, guadagnano spazio quei Paesi che sono capaci di «parlare con tutti». Gli Stati Uniti e gli europei non sono più in grado di farlo, come hanno dimostrato questi ultimi anni di guerra in Ucraina e poi a Gaza. Ed ecco allora che il pragmatismo incurante delle contrapposizioni tra blocchi (Usa-Cina per esempio), si trasforma in una risorsa preziosa per le diplomazie dei Paesi in conflitto. Arabia Saudita, Emirati arabi e Qatar sono diventati i mediatori perfetti per quest’epoca di incertezza.
Gli intermediari
Così il Qatar allestisce, a Parigi e al Cairo, i tavoli principali per la trattativa tra americani, israeliani, egiziani e Hamas. Tregua in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi catturati dai terroristi. Gli Emirati hanno negoziato lo scambio di prigionieri tra Ucraina e Russia. Il 5 e il 6 agosto 2023 il principe saudita bin Salman ha organizzato a Gedda una conferenza per la pace tra Kiev e Mosca, cui hanno partecipato 38 Paesi, compresi quelli non ostili al Cremlino, come Cina, India, Brasile e Sudafrica. In quell’occasione tutti i delegati hanno sottoscritto una dichiarazione che ribadisce il principio «sulla inviolabilità dell’integrità territoriale» da applicare all’Ucraina. Per qualche mese è sembrato che potesse diventare un punto di partenza per avviare un negoziato. Il «no» di Putin ha affossato quel tentativo, ma la mediazione saudita resta in campo. Il vento del Golfo arabo, però, soffia anche su altri Stati a partire dalla Libia: gli Emirati continuano ad appoggiare le mosse del generale Khalifa Haftar, il leader di fatto della Cirenaica, la regione che contende il potere alla Tripolitania in un conflitto interno alimentato da altri Stati, dalla Turchia all’Egitto dalla Russia alla Francia. I capitali degli Emirati Arabi e dell’Arabia Saudita, insieme a quelli degli americani, contribuiscono alla stabilità economica dell’Egitto. Da ultimo il principe bin Salman ha deciso di partecipare anche al piano Mattei, lanciato da Giorgia Meloni, versando un contributo di 200 milioni di dollari sui 5,5 miliardi totali. Con la Cina, con l’Unione europea, con la Russia, con Israele e con l’Iran: affari e politica davvero senza confini.
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