Sì, l’essere brutali nel dire le cose come stanno è mille volte preferibile alla commemorazione istituzionale, riprodotta con lo stampino. O all’insopportabile rimpallo governo-opposizione […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – “La verità brutalmente detta è che non gliene frega niente a nessuno di chi muore sul lavoro”. Stefano Massini a “Otto e Mezzo” sulla strage di operai nel cantiere di Firenze

Sì, l’essere brutali nel dire le cose come stanno è mille volte preferibile alla commemorazione istituzionale, riprodotta con lo stampino. O all’insopportabile rimpallo governo-opposizione delle accuse sull’uso criminale dei subappalti a cascata. O all’ipocrisia della lacrimuccia versata nell’editoriale. Dopo le ventimila morti sul lavoro negli ultimi vent’anni. Infatti, ci dice Massini, se “ne parliamo oggi è perché in un cantiere ne sono morti più di uno ma da domani ne moriranno altri che non faranno notizia”.

Dunque il tema riguarda anche noi giornalisti, molto da vicino, e non sarò certo io che ho diretto giornali e frequento la carta stampata da oltre mezzo secolo a impartite lezioncine di deontologia un tanto al chilo visto che in materia avrò sicuramente qualcosa da farmi perdonare. Anni fa in un libro dedicato a un certo modo di fare informazione elencavo, con un paradosso brutale, gli argomenti che era meglio evitare. Storie di anziani abbandonati, disabili trascurati, senzatetto nel consueto habitat di cartoni e sporcizia. Pollice verso per le traversie sanitarie ed esistenziali di tossicodipendenti, malati cronici, malati terminali. Consigliabile non soffermarsi troppo sugli emarginati e i marginali in generale: disoccupati (e in particolare, i giovani disoccupati), nullatenenti o sotto la soglia della povertà o comunque di peso per la società, ragazze madri, extracomunitari, nomadi, contadini (a meno che non marcino sul Festival di Sanremo coi trattori), preti (se non accusati di pedofilia) e monache. Possibilmente da schivare (così concludevo la mia lista infame) le inchieste sugli infortuni sul lavoro.

Che le vite sfortunate siano respingenti equivale alla scoperta dell’acqua calda. Lo sono per chi fa i giornali, come ci spiegò il citatissimo Pierre Bordieu con la sua metafora degli occhiali. A proposito dei fenomeni cosiddetti di “periferia”, il sociologo francese scriveva che i giornalisti – spinti non solo dalle propensioni inerenti al loro mestiere, alla loro visione del mondo, alla loro formazione, ma anche alla logica della professione – selezionano la realtà, decidendo che cosa è interessante e cosa invece non lo è. I giornalisti hanno, appunto, “occhiali” speciali attraverso i quali vedono certe cose e non altre; vedono in un certo modo le cose che vedono. Operano, insomma, una selezione e una costruzione di ciò che poi verrà pubblicato. I giornalisti, insomma, si interessano solo a ciò che è importante, sorprendente, divertente per loro. Ma siamo così convinti che attraverso i famosi “occhiali” siano soltanto i giornalisti a osservare la realtà, e non anche i lettori? Poiché anche il nostro lavoro obbedisce a una logica industriale (copie da vendere, ascolti da fare), e dunque alla legge del mercato, non sarà che ci occupiamo poco delle “vite sfortunate” e delle storie tristi perché è quello che i lettori chiedono? Si potrebbe replicare che alla base della crisi costante dei quotidiani, e delle edicole, potrebbe esserci proprio questa insensibilità diffusa per i temi di forte impatto sociale, retrocessi per fare posto al chiacchiericcio della politica e all’esercizio del cazzeggio. Ma come spiegare allora l’enorme clamore suscitato a Sanremo dalle quattro parole sulla guerra di Ghali, mentre la splendida “L’uomo nel lampo” di Paolo Jannacci e Stefano Massini ci lavava le coscienze nell’“angolo della riflessione”?