Giudicare la legittimità di una guerra senza tenere conto di tutte le circostanze e dati rilevanti porta inevitabilmente a conclusioni errate. (Dalla nota dell’Ambasciata d’Israele a Roma, in risposta al cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato del Vaticano).

(di Giovanni Valentini – ilfattoquotidiano.it) – Che cosa accadrebbe in un’azienda “normale” se l’amministratore delegato prendesse pubblicamente posizione su una rilevante questione di politica internazionale senza consultare il presidente e il Cda? Con ogni probabilità, verrebbe messo in minoranza e “dimissionato”. Ma la Rai, come si sa, non è un’azienda “normale”. E verosimilmente l’ad Roberto Sergio, dopo le polemiche suscitate dal comunicato che ha fatto diffondere sul “caso Ghali” al Festival di Sanremo, resterà al suo posto e, anzi, non è neppure escluso che venga confermato a luglio, alla scadenza di questa consiliatura.

Eppure, la presidente Marinella Soldi ha lasciato trapelare il suo “estremo disappunto” per il comportamento di Sergio. Il direttore generale Giampaolo Rossi, a quanto pare, ha preso le distanze. La consigliera Francesca Bria (Pd) ha parlato di “censura preventiva e controllo politico” e il consigliere Davide Di Pietro, eletto dai dipendenti, ha definito il comunicato “improvvido e parziale”.

Ancora una volta, dunque, la ragion di Stato ha prevalso sulla gestione del servizio pubblico radiotelevisivo, calpestandone l’autonomia e l’indipendenza. O forse, bisognerebbe dire meglio la ragion di governo, posto che il controverso comunicato reca l’imprimatur di Palazzo Chigi, a cui l’infausta contro-riforma di Matteo Renzi del 2015 ha rimesso direttamente la nomina dei vertici Rai. Una subordinazione alla politica che si trasforma ora in una censura di regime, oscurando anche le manifestazioni di protesta.

Di che cosa dovevamo scusarci con Israele? Del fatto che un cantante, dal palco di un Festival che da tempo ormai non è più solo una rassegna di canzonette, ha invocato uno “Stop al genocidio”? Vale a dire, sterminio, massacro, carneficina. E non è un genocidio – appunto – quello consumato dalla reazione, evidentemente sproporzionata, di Tel Aviv all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023? Da allora a oggi, non sono state uccise nella Striscia di Gaza circa 30 mila persone, di cui almeno un terzo bambini, creature inermi e innocenti?

Sull’accusa di genocidio, presentata formalmente dal Sudafrica, sta già indagando la Corte di Giustizia internazionale. Contro questa strage continuata, e a favore di un “cessate il fuoco” umanitario, si sono pronunciati l’Onu, l’Unione europea, il Parlamento italiano e la Santa sede. Tant’è che l’ambasciatore israeliano se l’è presa perfino con il Segretario di Stato vaticano, come si legge nella citazione iniziale di questa rubrica, bollando come “deplorevole” (poi corretto in “sfortunato”) il suo appello alla pace. E allora, di che cosa si scusa Roberto Sergio che, in quanto amministratore della Rai, dovrebbe preoccuparsi soprattutto di tenere in ordine i conti dell’azienda?

Anziché emettere un arbitrario comunicato, affidandone la lettura in diretta tv a una malcapitata conduttrice della domenica, avrebbe potuto organizzare un’intervista o magari un contraddittorio con il diplomatico per consentirgli di esporre la propria posizione. Così, invece, ha spaccato il consiglio di amministrazione e ha compromesso la credibilità dell’azienda pubblica, arrogandosi il diritto di parlare a nome di dodicimila dipendenti, di cui circa duemila giornalisti. Per le minacce di morte che ha ricevuto, l’ad della Rai merita senz’altro protezione e solidarietà. Ma la memoria dell’olocausto non giustifica un genocidio. Né lo giustificano l’assalto terroristico e il massacro del 7 ottobre.