D’un tratto ho avuto l’impressione di essere tornata ai cari vecchi tempi di due anni fa, quelli delle purghe giornalistiche, delle subdole pretese di autodafé, delle liste […]

(DI DONATELLA DI CESARE – ilfattoquotidiano.it) – D’un tratto ho avuto l’impressione di essere tornata ai cari vecchi tempi di due anni fa, quelli delle purghe giornalistiche, delle subdole pretese di autodafé, delle liste di proscrizione. Forse perché si avvicina il lugubre anniversario del 24 febbraio, il giorno dell’invasione russa si avvicina, ed è bene magari lanciare qualche avvertimento, qualche preavviso, in modo che non si insista a mettere in discussione la necessità di quella guerra nel cuore dell’Europa. Così mi è stata attribuita l’etichetta di allora, “scettica sul sostegno militare all’Ucraina sulle sanzioni contro la Russia”, mentre io sono scettica sulla guerra, o meglio, sono contraria alla guerra (e c’è una bella differenza). Nello stesso articolo, uscito per La Stampa il 2 febbraio, si ricorda che il Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale dell’Ucraina mi ha inserito per le mie opinioni nella sua lista nera – ma il giornalista che firma l’articolo lo fa senza nemmeno una parola o anche solo un cenno di distanza e biasimo per quell’orribile episodio di cui sono stata vittima (denunciato dal Fatto Quotidiano il 18.11.2022).

Senonché questa volta all’etichetta di “filoputiniana” (sinonimo ormai di pacifista) si aggiunge quella di “rossobruna”. Il che rende questa nuova lista di proscrizione davvero grottesca. Partecipare a un dibattito significa a priori condividere idee e posizioni degli interlocutori? Che io sappia no. Anzi! Inserire però tutti nello stesso calderone serve a creare un fronte (che altrimenti non ci sarebbe), uno schieramento omogeneo e definito, indicando ai lettori i nemici potenziali, gli avversari da disprezzare, quelli da cui stare alla larga, da non votare, non seguire. Ma davvero si ritiene di contribuire in questo modo a un aperto dibattito democratico? Davvero s’immagina di informare, e di aiutare a farsi una propria opinione, come dovrebbe essere auspicabile? Penso, al contrario, che questo modo di stigmatizzare – ad esempio “la scuola russobruna” (esiste?) – serva solo a deteriorare enormemente il dibattito e a favorire derive autoritarie.

Inserire me nella categoria politica dei rossobruni è un gesto tra il carnevalesco e il comico. Lo dimostra quello che ho detto e scritto in questi anni. Perciò sono stata evidentemente invitata al dibattito. Se dal punto di vista filosofico sostengo un “nuovo anarchismo”, dal punto di vista politico ho tentato più volte di sottolineare il rischio di una saldatura tra bruni e rossi, che passa attraverso l’idea di patria. Ed è un peccato che finora non si sia aperta la discussione su questo tema dirimente. Ritengo infatti che sinistra e destra siano – oggi più che mai – punti di orientamento opposti e imprescindibili. La sfida della nuova sinistra (che non c’è) è quella anzitutto di smontare la falsa alternativa tra cosmopolitismo e nazionalismo. Dato che lì fuori ci sono da un canto i “poteri forti” che ci rendono la vita impossibile, dall’altra la “marea nera” che arriva sulle nostre coste, l’unica via sarebbe quella della difesa della patria nazionale, della sua sovranità. Ma se la sinistra prende questa strada si confonde con la destra, e il rosso s’imbrunisce via via fino al nero. È quello che vediamo in questo periodo. Sarebbe altrimenti difficile spiegare l’avanzata della destra radicale in tutto l’Occidente. Se si deve scegliere la bandiera della “nazione”, meglio l’originale della copia.

La sinistra per me è pacifista proprio in quanto non è patriottica. Non vogliamo la pace per salvare la nostra nazione e stare un po’ meglio – guardiamo alla pace come obiettivo politico-strategico perché crediamo alla coabitazione dei popoli europei come alternativa all’ingegneria demografica che sfocia sempre nella violenza. Le parole sono importanti: la nazione, che ha a che fare con la nascita, la discendenza dal sangue, la proprietà del suolo, è un criterio prepolitico reazionario, come lo è la terra “dei padri”, che esclude le donne. Il demos non può essere identificato all’ethnos. Il gesto con cui nasce la democrazia è quello dell’accoglienza. La sinistra deve essere in grado – ed è già tardi – di pensare a una forma di comunità che si articoli sulla base di criteri politici di cittadinanza aperta, non di principi etnici già fonte di discriminazione, violenza, guerra.

Ne parleremo con Stefano Fassina e Marco Tarchi. Le loro posizioni (certamente differenziate l’una dall’altra) non sono le mie. Per questo sono ben lieta di confrontarmi. Al contrario, stigmatizzare quelli che non la pensano come noi, finisce non solo per emarginare ogni dissenso, ma anche per aumentare la confusione politica. Proprio in vista delle elezioni europee dovrebbero invece essere promossi dibattiti su temi così scottanti, sia per fare uscire i partiti dall’ambiguità, sia per aiutare i cittadini a votare.