
(Enrico Mingori – tpi.it) – Dopo anni di sonno totale, nelle ultime settimane la politica italiana si è improvvisamente accorta che Fiat è diventata francese e che il suo futuro nel nostro Paese è in bilico. Meglio tardi che mai. Il dibattito che ne è scaturito, tuttavia, fa cadere le braccia: i partiti stanno mettendo in mostra tutta l’impreparazione sulle vicende di Stellantis accumulata in questo lungo tempo trascorso lontano dalle fabbriche. Vale per la sinistra come per la destra.
Ad esempio, non si è proprio capito il senso delle parole pronunciate da Elly Schlein quando l’amministratore delegato Carlos Tavares ha avvertito che senza sussidi alcuni stabilimenti rischiano di chiudere. «Tavares ha lanciato una sfida, il governo la raccolga», ha dichiarato la segretaria del Pd. Ma quella del manager era chiaramente una minaccia, mica una sfida.
La leader dem ha quindi esortato l’esecutivo a far entrare lo Stato nella compagine sociale di Stellantis, come supposto dal ministro delle Imprese Adolfo Urso (il quale peraltro aveva già fatto questa proposta nel 2022, da presidente del Copasir). Peccato che quella di Urso sia stata solo una boutade. E non è nemmeno difficile intuirlo.
Certo, l’Italia avrebbe di che guadagnarci se un suo rappresentasse sedesse nel consiglio d’amministrazione della multinazionale – sia in termini di dividendi da incassare sia in termini di peso nelle scelte industriali dell’azienda – ma servirebbero almeno 4 miliardi di euro per pareggiare la quota in mano allo Stato francese (che comunque ha più diritti di voto) e il nostro governo non ha alcuna intenzione di tirarli fuori. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è tutto proiettato sul dossier privatizzazioni: il suo primo pensiero oggi è fare cassa, altro che finanziare l’acquisto di una quota dell’ex Fiat.
Anche Giuseppe Conte oggi vorrebbe lo Stato italiano socio di Stellantis. Il leader del M5S dimentica però che era lui il presidente del Consiglio quando si consumò la fusione tra Fiat Chrysler e Peugeot. E non risulta un suo impegno all’epoca per piazzare un emissario di Roma nel Cda. Anzi, il Governo giallorosso concesse a Fca un prestito da 5,6 miliardi di euro (poi restituito) che fu utilizzato dagli Elkann per autoassegnarsi lauti dividendi nei mesi seguenti. All’epoca solo Carlo Calenda e il dem Andrea Orlando sollevarono la questione, ricevendo fra l’altro in cambio un coro di critiche dal centrosinistra. Poi è calato di nuovo il silenzio.
Negli ultimi due anni nessuno o quasi ha detto o fatto nulla, ad esempio, sulla “fuga da Stellantis” di migliaia di lavoratori che, non vedendo più un futuro nell’azienda, hanno accettato la buonuscita offerta dai francesi e si sono licenziati.
Per troppo tempo la politica è rimasta a guardare da lontano. Intanto Fiat tradiva ripetutamente gli impegni presi sugli investimenti da fare in Italia e accumulava un ritardo spaventoso sull’auto elettrica.
Dov’erano i partiti che oggi strepitano, quando venivamo superati da Repubblica Ceca e Slovacchia per numero di auto prodotte? Non è un caso se lo scorso dicembre, per la prima volta dopo 96 anni, Fiat ha perso il primato di marca più venduta nel nostro Paese, superata dalla tedesca Volkswagen.
Oggi che il tema Stellantis è finalmente tornato sulle prime pagine dei giornali si discetta prevalentemente di misure marginali, come gli incentivi all’acquisto, o irrealistiche, come la possibilità che lo Stato diventi azionista.
Sarebbe invece il caso di discutere, più concretamente, di come affrontare dal lato dell’offerta la svolta epocale dell’elettrificazione. E quindi ragionare di come incentivare la costruzione in Italia di nuove fabbriche per la produzione e il riciclo delle batterie, di come riqualificare decine di migliaia di operai specializzati, di stimolare le attività di ricerca e sviluppo,e così via. Si chiama politica industriale. Ma richiede studio, idee, programmazione. La nostra politica preferisce azzuffarsi sul nulla. E allora, adieu.
Articolo qualunquista che vuol forzatamente paragonare un prestito, anche questo sotto “minaccia” di lasciare migliaia di famiglie senza stipendio, alla recente richiesta di incentivi = regalo.
Pure un bambino lo capisce che un prestito non è un regalo.
Se il prestito l’hanno poi restituito, non è molto corretto affermare che “fu utilizzato dagli Elkann per autoassegnarsi lauti dividendi”.
Inoltre la fusione di cui parla è stata LEGALE, quindi chi ha scritto l’articolo dovrebbe anche spiegare come un Governo possa impedire a dei privati di fare scelte LEGALI per un loro tornaconto. A pontificare siam tutti bravi.
Piuttosto si ammetta che ora nel resto del mondo i concorrenti della fu FIAT sono più capaci, invece di addossare i fallimenti di un PRIVATO alle istituzioni.
La società occidentale, forse plagiata , ha scelto il liberismo/capitalismo e schifato il comunismo (dottrina), ha accettato l’idea che a comandare fosse il libero mercato, quindi è ora di smetterla di non accettare la parte negativa che questa scelta comporta.
Se gli stabilimenti devono chiudere li chiudessero, come chiude una pizzeria in periferia senza il clamore dei media. Tanto gli operai, se è vero ciò che dice la Meloni (“il lavoro c’è”) non dovrebbero avere nessun problema a ricollocarsi. No?
Se poi la Meloni e i suoi fans dicono cazzate, allora si cominciasse a farlo notare invece di accettarle come verità.
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Mah, di veramente surreale c’è che si tiri in ballo lo stato (da qualunque parte) perché diventi parte attiva: o come socio o come sostanziale pagatore delle maggiori spese da sostenere per un certo prodotto. “L’incentivo”, infatti, soprattutto se strutturale come di fatto auspicano sia Tavares che sindacati e compagnia cantante, altro non è che partecipazione alle spese per la realizzazione di quel prodotto che dovrebbero essere pagate dall’acquirente, invece.
Lo sta una sola cosa dovrebbe fare: creare le condizioni per fare impresa in maniera economicamente sostenibile. Quindi, tasse ragionevoli, mercato del lavoro dinamico, ottica industriale chiara; motivi la cui negazione spinge le imprese altrove. Pannicelli caldi basta, per favore.
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Di Risio, marchio DR, è un’azienda italiana mi sembra.
Produce e vende senza tanti c…., mi sembra.
E se puntassimo su di essa e incentivassimo un prodotto italiano?
Faremmo l’interesse nazionale no?, mi sembra.
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vuoi dire che DR è una carriolina?
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Pochi commenti e sconclusionato.
Il Conte II in piena pandemia, non avendo miliardi da distribuire ad katsum con un semplice click (copyright della fasciocoatta) si propose come GARANTE sui prestiti che le banche etogavano ai clienti.
FCA usò i 6 Miliardi di un prestito concesso le da Intesa per pagare immediatamente i fornitori invece che dopo 40/60 giorni come da consuetudine, perché non avevano liquidità.
Pago’ gli stipendi agli operai pur non avendo le disponibilità finanziarie conseguenti al blocco produttivo e di vendite durante i primi 6 mesi di pandemia.
Utilizzo’ una quota parte di quei fondi per stimolare la domanda con aggressive campagne di marketing, con finanziamento a tasso zero e prima rata dopo 6 mesi nell’anno successivo.
Le scemenze sull’ingresso dello Stato nel capitale di Stellantis lasciano il tempo che che trovano.
Oggi l’azione quota 20/21 euro, all’epoca 8/9, allorquando partecipo’ al merger pure lo Stato francese. Sarebbe un suicidio finanziario Inutile, perché sarebbe più opportuno investire quei fondi in ricerca e sviluppo per la transizione energetica.
Ricerca del Litio in Italia, perché ce n’è tanto lungo la costa tirrenica e in Sardegna.
Riciclo delle batterie, visto che alcune imprese recuperano i metalli rari da batterie e componenti elettroniche per rivenderli all’estero.
Spingere verso nuovi materiali ad alta Densità di accumulo energetico e con ricarica quasi istantanea. La ricerca in alcune università italiane è più avanti di quel che si pensa.
Aumentare la produzione elettrica da fonti rinnovabili invece di continuare ad insistere sul fossile.
Adeguare la rete distribuzione elettrica alla crescita della domanda, installare colonnine di ricarica ovunque, specie sulle autostrade.
Produrre, manutenzione e riciclare tutta la filiera coinvolta, dai pannelli fotovoltaici alle pale eoliche, ai nuovi elettrodotti, alle batterie, ai motori.
Nel 2023 la quota di vetture eletttiche in Italia, 4°mercato europeo, è stata del 3%, contro una media del 20 che contribuiamo ad abbassare.
Pensiamo si tanti turisti che arrivano dall’Europa con le loro auto eletttiche e non trovano le colonnine di ricarica, preferibilmente veloci ad alta tensione.
Ci vogliamo giocare pure i flussi turistici?
Invece di continuare a concentrarsi sull’assemblatore finale pensassero a come favorire le produzioni della filiera e quella di energia pulita e costante.
Ma tanto la politica industriale viene ancora dettata da ENI e dalla sua scemenza del “Piano Mattei”.
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