I LEADER COME SPECCHIETTI PER LE ALLODOLE – Per Strasburgo, il record appartiene alla destra: Salvini, Berlusconi, Meloni A sinistra spiccano D’Alema, Bertinotti e Bonafè. Il caso Calenda nel 2019

(DI TOMMASO RODANO – ilfattoquotidiano.it) – Mi candido in Europa, prendo centinaia di migliaia di preferenze, vengo eletto, faccio finta di niente e resto a casa. O al limite mi dimetto alla prima occasione utile. È la storia delle elezioni europee: per i leader nazionali il voto per l’Unione europea è soprattutto uno specchietto per le allodole, uno strumento per misurare il consenso interno. I nomi “pesanti” sulla scheda elettorale fanno la differenza, ma in Italia: del Parlamento di Strasburgo interessa il giusto.

Una storia che almeno non riguarda solo il nostro Paese, a giudicare dall’editoriale con cui il corrispondente del Guardian, John Palmer, introduceva le prime elezioni europee nel 1979: “Nella Germania Ovest, in Irlanda, in Belgio e nei Paesi Bassi ci sembra che verranno usate come un comodo sondaggio nazionale per interpretare il consenso riguardo a temi interni”.

Da noi però l’abuso è diventato regola. Il maestro di questa strategia vagamente truffaldina è stato, nemmeno a dirlo, Silvio Berlusconi. La legge elettorale per l’Europarlamento (un sistema proporzionale con voto di preferenza) non solo non tutela dalle candidature acchiappa-voti, ma permette di presentarsi in contemporanea in tutte e cinque le circoscrizioni in cui è diviso il territorio italiano. Berlusconi lo ha fatto ogni volta che ha potuto. Una “cultura” politica che ha attecchito bene a destra ed è stata imitata spesso e con profitto anche dagli ex alleati di Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Le Europee del 2019, per esempio, sono state quelle della riabilitazione politica dell’ex Cavaliere, le prime alle quali si è potuto ricandidare dopo la condanna per frode fiscale e gli effetti della legge Severino. Berlusconi si è presentato da capolista in tutte le circoscrizioni (tranne in Italia centrale, lasciata al fido Antonio Tajani) ed è stato eletto con oltre mezzo milione di preferenze complessive. Anche Salvini e Meloni si sono candidati in tutte e cinque le aree elettorali. Il capo della Lega ha portato a casa il record di preferenze: 2.366.300. Meloni ha trascinato Fratelli d’Italia (all’epoca ancora un piccolo partito) fino 6,4% a livello nazionale grazie alle sue 490 mila preferenze. Tutti voti “finti” perché ovviamente né Salvini né Meloni avevano alcuna intenzione di onorare l’impegno. Berlusconi, se non altro, ha onorato l’impegno a Strasburgo fino al 2022, quando è stato rieletto al Senato della Repubblica ed è tornato a Roma. Ma l’ex Cavaliere era stato capolista in tutte e cinque le circoscrizioni anche alle Europee del 2009 e del 2004: ha occupato e personalizzato ogni elezione possibile (nel 2014 non gli fu permesso per via della condanna), portando a casa milioni di preferenze che servivano solo alla sua leadership nazionale. Meloni invece è stata capolista di FdI in tutte le circoscrizioni nel 2014 (non eletta) e nel 2019 (eletta), senza mai passare nemmeno un minuto a Strasburgo o a Bruxelles: con la probabile candidatura alle elezioni del prossimo giugno, la premier metterebbe a segno la tripletta da capolista “farlocca”.

La fotografia italiana nell’ultima legislatura europea non è luminosa. Nel 2019 si erano presentati alle urne ben 37 candidati che avevano già incarichi incompatibili con quello di parlamentare europeo (assessori e consiglieri regionali, deputati e senatori). Tra i leader nazionali in questa posizione, oltre a Meloni e Salvini, c’erano Emma Bonino e Nicola Fratoianni (nessuno dei due è stato eletto).

Molti di quelli che si sono effettivamente insediati in Europa, invece, hanno fatto marcia indietro prima del termine del mandato: tra i 73 eurodeputati italiani eletti nel 2019, ben 13 si sono candidati alle Politiche del 2022 con l’obiettivo di tornare a casa.

La maggior parte di loro c’è riuscita: oltre ai citati Berlusconi e Tajani, a destra il nome più noto è quello di Raffaele Fitto. Nello schieramento opposto invece spiccano Simona Bonafè (che ha “tradito” le 170 mila preferenze che l’avevano fatta eleggere in Europa) e soprattutto Carlo Calenda, che nel 2019 si era iscritto al Pd e si era fatto eleggere a Strasburgo da capolista nella circoscrizione Italia nord-orientale (quasi 280 mila preferenze), ma ha mollato subito il partito (per fondare Azione) e poi il seggio europeo (per approdare al Senato).

Il malcostume della candidatura farlocca è praticato con assoluta disinvoltura a destra, ma non è disdegnato nemmeno a sinistra. Nel 2004 Massimo D’Alema, presidente e frontman dei Ds, decise di affrontare Berlusconi sul suo campo e si presentò da capolista di Uniti nell’Ulivo in Italia meridionale. Ottenne una vittoria schiacciante: 836 mila preferenze contro le 454 mila dell’ex Cavaliere. Ma in quella tornata delle Europee tutti i leader di partito si sfidarono tra di loro in una conta spietata: anche Gianfranco FiniUmberto BossiFausto Bertinotti si presentarono da capilista in tutte e cinque le circoscrizioni. Pure Fini andò molto vicino a un’affermazione clamorosa contro Berlusconi e fu sconfitto con margine ridotto: circa 50 mila preferenze sia al Centro che al Sud. Persino all’interno dei partiti si scatenò una campagna senza quartiere tra candidati (dentro Alleanza Nazionale, ad esempio, Gianni Alemanno ottenne lo scalpo di Maurizio Gasparri (280 mila a 203 mila). Risultati significativi solo a Roma. Battaglie personali, di lista o di corrente del tutto ininfluenti per il Parlamento europeo: Berlusconi, Bossi, Fini, Alemanno, Gasparri hanno ovviamente rinunciato all’elezione. D’Alema invece fu parlamentare europeo per poco più di un anno e mezzo: da luglio 2004 ad aprile 2006. Come lui, anche Pier Luigi Bersani: eletto in Italia Nord-occidentale con 343 mila preferenze, entrò e uscì da Strasburgo esattamente lo stesso giorno del leader dei Ds; un anno e mezzo di parentesi europea prima di tornare alla Camera dei deputati (e alla poltrona di ministro dello Sviluppo economico nel governo Prodi). Pure Bertinotti, leader di Rifondazione comunista, rientrò in Italia nel 2006 (e fu eletto presidente della Camera).

Nelle liste di Uniti nell’Ulivo quell’anno corse anche Michele Santoro, una delle candidature “di bandiera”: anche il giornalista ottenne un risultato notevolissimo (oltre 200 mila preferenze), ma resistette lontano dalla televisione non più di un anno, poi si dimise e tornò in Italia per condurre Rockpolitik con Adriano Celentano.