PANDORI, UOVA E FANTASIA – Il social washing è ovunque, i marchi e gli influencer lo usano per posizionarsi, spinti dalle analisi di mercato

(DI VIRGINIA DELLA SALA – ilfattoquotidiano.it) – Gli hanno trovato un termine preciso: woke washing, che stando alla migliore delle traduzioni rintracciabili sarebbe l’usare “temi di giustizia sociale come strategia di marketing”. Da qui discende una declinazione al dettaglio quasi infinita – green washingsocial washingrainbow washingmental health washingcurve washingwhite washingpink washing – a seconda della tematica sociale che si sceglie di appoggiare perché potrebbe avere (anche) un ritorno di immagine sui potenziali clienti.

Eni, ad esempio, è accusata di greenwashing dagli ambientalisti: l’ultimo Sanremo era targettizzato (lunghi siparietti fuori dal teatro con gli striscioni inquadrati) con il marchio del suo braccio “green” Plenitude mentre l’azienda continuava a cercare e siglare accordi per l’estrazione di petrolio e gas.

Su Tiktok, invece, ha fatto molto discutere la decisione di Martina Strazzer, fondatrice del brand di gioielli “Amabile”, di uscire con una collezione dal titolo “Amore Dannoso” dedicata a “chiunque come me è stata o è vittima di violenza psicologica o fisica” a pochi giorni dal femminicidio di Giulia Cecchettin. In quel caso, dopo video di critiche, l’influencer ne ha pubblicato uno in cui annunciava che il 100% dei ricavi sarebbe stato destinato a un’associazione modenese per le donne e un altro in cui spiegava che la collezione era pensata da tempo. Tempismo sfortunato e ottimo recupero, sul filo del rischio reputazionale.

Lo stesso rischio che potrebbe correre se venisse fuori il nome degli influencer che, come raccontava ieri nelle sue storie di Instagram Micol Ronchi, la sorella della ragazza scomparsa da giorni, alle richieste degli utenti di diffondere l’appello per trovare Anastasia avrebbero risposto “devo sentire il mio agente”.

Le aziende, in realtà, lo chiamano “corporate activism” e l’accezione positiva che ha per loro spiega la reazione di chi per difendere i Ferragnez nel Pandorogate accusa altri di non fare abbastanza beneficenza solo perché non documentata. A fomentarlo, decine di analisi di mercato. Secondo Mktg, l’86% dei consumatori vuole un marketing cause-driven, cioè desidera che il brand si impegni in una causa sociale. Uno studio di Edelman dice invece che il 57% del campione si aspetta posizioni definite sulle questioni sociali di rilievo. E che i consumatori sono disposti a pagare di più per questo. Si parla però poco di trasparenza. Gli influencer, poi, come spiega anche il sito specializzato be2be, sono ormai dei marchi. “E se in passato il focus del marketing era il prodotto, oggi è il consumatore con tutte le sue emozioni, pulsioni e convinzioni… spacca gli utenti e i consumatori, ma parla a un target molto preciso, lo prende per il cuore”. Rossella Sobrero, fondatrice del Salone della Csr e dell’innovazione sociale, su Vita.it pare bocciare questa modalità. “Diventa urgente prendere le distanze da personaggi che, grazie al patrimonio di follower, rischiano di diventare punti di riferimento sui temi sociali, senza nessuna competenza”. E Ferragni non è l’unica. “Sono molti i personaggi famosi che sembrano battersi per una buona causa: in alcuni casi si tratta di esempi negativi di influactivism, parola inventata negli Stati Uniti per definire chi utilizza i social per rafforzare community numerose e sempre più attive”.

Anche perché, ormai, gli influencer sono i nuovi perfetti testimonial di tutto. A Pasqua, per dire, le uova hanno puntato su una fitta pletora di content creator come testimonial, andando oltre i tradizionali cartoon: oltre a quelle della Ferragni, ci sono state (senza sostegno a iniziative benefiche) le uova di Fedez, di Elettra Lamborghini, degli youtuber “Me contro Te” e “Le Twins”, della signora delle ricette Benedetta Rossi. Ma pure quello di Clio MakeUp, questo sì sullo stesso modello Ferragni.