
(NINO CARTABELLOTTA – lastampa.it) – Il 23 dicembre 1978 il Parlamento approvava a larghissima maggioranza la legge 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) in attuazione dell’articolo 32 della Costituzione. Un radicale cambio di rotta nella tutela della salute delle persone, un modello di sanità pubblica ispirato da princìpi di equità e universalismo, finanziato dalla fiscalità generale, che ha permesso di ottenere eccellenti risultati di salute e che tutto il mondo continua ad invidiarci.
Il 23 dicembre 2023, purtroppo, il Ssn non spegnerà 45 candeline sotto il segno dell’universalità, dell’uguaglianza, dell’equità, i suoi principi fondanti ampiamente traditi. Perché oggi la vita quotidiana delle persone, in particolare quelle meno abbienti, è sempre più condizionata dalla mancata esigibilità di un diritto fondamentale che non riflette affatto quel modello di sanità pubblica: interminabili tempi di attesa per una prestazione sanitaria o una visita specialistica, necessità di ricorrere alla spesa privata sino all’impoverimento delle famiglie e alla rinuncia alle cure, pronto soccorso affollatissimi, impossibilità di trovare un medico o un pediatra di famiglia vicino casa, enormi diseguaglianze regionali e locali sino alla migrazione sanitaria. Ed è proprio il precario stato di salute del Ssn a soli 45 anni, che invita a chiedersi: a cosa serve realmente un servizio sanitario? Ponendosi nella prospettiva più ampia della politica, il fine supremo di qualunque Governo deve essere quello di promuovere la dignità dei cittadini. Se un Governo considera le persone come valore assoluto e vuole essere garante della loro dignità, deve chiedersi quali sono le loro aspirazioni e le loro capacità.
Solo rispondendo a queste domande permetterà loro, compatibilmente con le risorse disponibili, di soddisfare le proprie ambizioni. In altre parole, promuovere la dignità di una popolazione significa garantire a tutti la capacità di compiere le proprie scelte e la libertà di metterle in atto. E tale capacità dipende da abilità individuali (condizionate da genetica e fattori ambientali), dal contesto politico, sociale ed economico e, ovviamente, dallo stato di salute. E sono proprio gli indicatori relativi al nostro stato di salute che permettono al Paese di valorizzarci: aspettativa di vita alla nascita, qualità di vita libera da malattie e disabilità, capacità di mantenere la salute, benessere psichico, possibilità di esprimere sentimenti ed emozioni, attitudine a preservare l’ambiente in cui viviamo. I governi, dunque, devono investire nei sistemi sanitari e organizzarli al meglio, con l’obiettivo di garantire ai cittadini la libertà di realizzare pienamente obiettivi e ambizioni. Perché il valore di un servizio sanitario deve essere stimato soprattutto sulla base delle libertà che il nostro stato di salute ci concede per scegliere la vita che desideriamo vivere.
Ovvero, indebolire il Ssn significa compromettere non solo la salute, ma soprattutto la dignità dei cittadini e la loro capacità di realizzare ambizioni e obiettivi che, in ultima analisi, dovrebbero essere visti dalla politica come il vero ritorno degli investimenti in sanità, volando alto nel pensiero politico, nell’idea di welfare e nella programmazione socio-sanitaria. Per questo nel dibattito politico la spesa per salute non può essere relegata solo all’ambito sanitario, trascurandone sia l’impatto sociale sia quello sul sistema economico e produttivo. Non possiamo continuare ad ignorare, a differenza di altri Paesi, che lo stato di salute e benessere della popolazione condiziona la crescita del PIL.
Purtroppo, i governi che si sono alternati negli ultimi 15 anni hanno contribuito al progressivo sgretolamento del Ssn, hanno svalutato i princìpi fondanti ed eroso il diritto costituzionale alla tutela della salute, offuscando aspirazioni e prospettive della popolazione e, soprattutto, delle future generazioni. Con gravi azioni e omissioni: considerare la sanità come un costo e non come un investimento per la salute e il benessere delle persone, oltre che per la crescita economica del Paese; ridurre il perimetro delle tutele pubbliche per aumentare forme di sussidio individuale con l’obiettivo, peraltro raramente centrato, di mantenere il consenso elettorale; permettere alla politica partitica (politics) di avvilupparsi in maniera indissolubile alle politiche sanitarie (policies), con decisioni che non mettono al primo posto la tutela della salute dell’individuo e della collettività; prendere decisioni in contrasto con il principio della “salute in tutte le politiche” che impone di orientare tutte le decisioni politiche, non solo sanitarie ma anche industriali, ambientali, sociali, economiche e fiscali, mettendo sempre al centro la salute delle persone; accettare svilenti compromessi con l’industria, solo perché un’elevata domanda di servizi e prestazioni sanitarie genera occupazione, o perché – al contrario – l’introduzione di specifiche misure di prevenzione rischia di ridurre posti di lavoro.
Considerato che, anche per queste scelte politiche scellerate, stiamo perdendo il nostro insostituibile Servizio Sanitario Nazionale, in occasione del suo 45° compleanno la Fondazione Gimbe ribadisce con forza l’inderogabile necessità di un patto sociale e politico che, prescindendo da ideologie partitiche e avvicendamenti di Governi, riconosca in quel modello di sanità un pilastro della nostra democrazia, una conquista irrinunciabile e una grande leva per lo sviluppo economico del Paese.
i servizi sanitari regionali sono in mano alla politica , questa è la ragione dello sfascio
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dove la molitica mette mani subito marcisce
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Certo che se il resto del mondo continua ad invidiarci un carrozzone come questo, non oso immaginare come siano messi. Perché qui siamo veramente al ritorno al medioevo.
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