Una città, una fortezza, una prigione, un campo profughi, un covo terroristico, un fulcro della resistenza del popolo palestinese, un campo di sterminio. Gaza è tutto questo e non solo. L’ultimo attacco […]

(DI FABIO MINI – ilfattoquotidiano.it) – Una città, una fortezza, una prigione, un campo profughi, un covo terroristico, un fulcro della resistenza del popolo palestinese, un campo di sterminio. Gaza è tutto questo e non solo. L’ultimo attacco di Hamas a Israele, sotto l’aspetto puramente tecnico-militare è stato un raid condotto da forze paramilitari con metodi da operazioni speciali e tecniche terroristiche.
Un attacco ibrido, si direbbe oggi, se non fosse che la guerra e soprattutto il terrorismo comprendono aspetti multiformi. L’azione militare di Hamas è stata pianificata con cura e una buona dose di morbosa fantasia. Se il suo scopo era dimostrare la vulnerabilità del sistema difensivo israeliano e la capacità di forze speciali o insurrezionali di colpirlo, è stato raggiunto, ma lì si ferma. Perché le azioni “militari” di questo tipo abbiano un effetto prolungato o duraturo hanno bisogno di un apparato potente. Hamas ha tratto vantaggio dalla sorpresa e dal ricorso a metodi efferati e terroristici, ma non è sostenuto da un solido apparato bellico. Anzi, nello stesso ambito palestinese è in conflitto con diverse altre espressioni della resistenza. Il suo successo iniziale è perciò destinato a durare poco e servirà a peggiorare la propria situazione e soprattutto quella del popolo palestinese.
La potente struttura delle forze israeliane si è subito riavuta dalla sorpresa e ora cinge d’assedio tutta la Striscia di Gaza. Gli israeliani hanno i mezzi, la rabbia e la dottrina per farlo. È israeliana la concezione della Dahiya, ovvero della rappresaglia sproporzionata nei confronti dell’avversario a prescindere se sia o meno armato, combattente, donna o bambino come fu l’intervento nell’omonimo quartiere sciita di Beirut spazzato via nel 2006 e di nuovo attaccato nel 2013. L’ideatore, generale Eisenkot, per aver serenamente detto che la Dahiya non era un’opzione fantasiosa, ma una pianificazione accurata, si guadagnò la stima dell’ambasciatore americano e divenne poi capo di tutte le forze armate. L’azione “militare” di Hamas sembrerebbe non aver tenuto conto della capacità israeliana di ritorsione, ma in realtà l’azione è stata organizzata e decisa su questa certezza.
Hamas non gode del favore di nessuno, neppure degli stessi che forniscono soldi, armi e munizioni. L’unico punto di forza è la sua determinazione nel colpire Israele. L’azione militare volutamente eccessiva e sanguinaria non ha obiettivi militari e neppure territoriali o il depotenziamento delle forze israeliane peraltro impossibile. Hamas ha “semplicemente” voluto fare di Gaza la vetrina sulle nefandezze d’Israele e siccome quelle del passato non hanno ottenuto nulla ha approfittato della fragilità del quadro internazionale e dello stesso governo israeliano per provocarne di nuove.
La risposta di Netanyahu e dei suoi sostenitori internazionali e interni è stata immediata: pensando al superare le difficoltà personali, ha cercato consensi con le minacce di “soluzione finale”. Le misure già adottate con il blocco totale e la negazione di sopravvivenza per tutti gli abitanti della Striscia vanno in questa direzione, ma la strada è disseminata di trappole: la distruzione di Gaza comporta milioni di vittime non combattenti, il blocco totale non lascia scampo ai terroristi, ma neppure ai profughi ed è un crimine internazionale, l’impegno distruttivo a Gaza, comporta l’esposizione a nord, la soppressione dei militanti di Hamas perseguita con l’eliminazione dei palestinesi di Gaza mette a rischio gli accordi di Abramo con l’Arabia Saudita e aliena le simpatie degli stessi americani e della comunità ebraica in generale; nessuno in Israele vuole oggi sentire dai propri governanti le stesse parole pronunciate dai nazifascisti nei loro confronti, nessuno vuole l’allargamento del conflitto fuori e dentro Israele.
La rioccupazione militare di Gaza vorrebbe essere evitata perché onerosa anche in termini di perdite fra i soldati e gli ostaggi, ma secondo il diritto internazionale e il Consiglio di sicurezza, l’occupazione israeliana di Gaza non è mai cessata nonostante il ritiro unilaterale del 2005 e il diritto internazionale prevede più obblighi che diritti per gli occupanti ai quali impone la salvaguardia e il sostentamento della popolazione civile. In punta di diritto, è proprio l’incapacità di Gaza di gestire la propria sicurezza e di dover sottostare alla sorveglianza e alle incursioni israeliane dal cielo, dal mare e dai confini terrestri a determinare il dovere israeliano di proteggere i civili palestinesi, a prescindere che esista o meno un governo eletto. Ed è una trappola la criminalizzazione dei palestinesi che così si rivolgono all’eroicizzazione e martirizzazione dei militanti di Hamas. Israele sta facendo leva sulle immagini delle atrocità perpetrate da Hamas in tre giorni di combattimenti non per motivare alla guerra, ma per incitare alla vendetta. La giustizia e gli stessi palestinesi vorrebbero l’individuazione e punizione dei responsabili, ma quelle immagini stanno alimentando l’odio nei confronti di tutti i palestinesi e la loro richiesta di altrettanta vendetta per i sessant’anni di violenze, soprusi, distruzioni e massacri che essi hanno dovuto subire. Non siamo più in guerra, ma in una faida. E il compito di farne comprendere la differenza spetta proprio a quei soldati che si preparano a entrare nel campo minato dell’odio. È militare e antico il detto “in guerra non si prendono le decisioni in preda all’ira”.
Sempre più lucido Mini .bravo!
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”’È israeliana la concezione della Dahiya, ovvero della rappresaglia sproporzionata nei confronti dell’avversario a prescindere se sia o meno armato, combattente, donna o bambino come fu l’intervento nell’omonimo quartiere sciita di Beirut spazzato via nel 2006 e di nuovo attaccato nel 2013. L’ideatore, generale Eisenkot, per aver serenamente detto che la Dahiya non era un’opzione fantasiosa, ma una pianificazione accurata, si guadagnò la stima dell’ambasciatore americano e divenne poi capo di tutte le forze armate. ”’
Ma tu pensa.
Qualcosa del genere la fecero a Roma, alle Fosse Ardeatine.
Mentre Gaza ricorda irresistibilmente il quartiere ebraico di Varsavia, 1939-1943.
La rivolta del ghetto di Varsavia del 1943 (in yiddish וואַרשעווער געטאָ אויפֿשטאַנד / Varshever geto oyfshtand, in polacco Powstanie w getcie warszawskim, in tedesco Aufstand im Warschauer Ghetto) fu l’insurrezione, avvenuta dal 19 aprile al 16 maggio 1943, compiuta dalla popolazione ebraica reclusa nel ghetto di Varsavia verso le autorità tedesche occupanti la capitale polacca durante la seconda guerra mondiale.[7] Furono circa 13.000 gli ebrei uccisi nel ghetto in conseguenza della repressione della rivolta (7.000 vittime di esecuzioni sommarie all’interno del ghetto, più 5.000-6.000 che perirono negli incendi o tra le macerie degli edifici distrutti).[8] Alle vittime dei combattimenti nel ghetto vanno aggiunti 6.929 “combattenti” prigionieri che furono trasportati e uccisi a Treblinka.[9] Il ghetto fu completamente raso al suolo e i suoi 42.000 abitanti superstiti furono dispersi in vari campi di concentramento.[5]
Alla fine ha ragione Eric Zuesse, che ha scritto un libro in merito: la rivincita postuma del nazismo.
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… E che ad attuarla siano proprio i discendenti delle vittime di allora è AGGHIACCIANTE.
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Se leggiamo l’A.T. cosa fecero a Gerico, ad Ai (12.000 morti) e ad altre sessanta città quando Giosué entrò da quelle parti, si capisce bene l’apprezzamento per la vita dei ‘gentili’. Non sono mai cambiati in questi secoli, evidentemente.
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Grazie a Fabio Mini per il condivisibile ed utilissimo commento! Speriamo che la sua voce sia ascoltata da chi dovrà prendere le decisioni.
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“il blocco totale non lascia scampo ai terroristi, ma neppure ai profughi ed è un crimine internazionale”
Molto bene.
Ma il tribunale dell’Aja è in ferie?
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