In una economia avanzata, ma con crescita stagnante, salari fermi, e risparmio e ricchezza abbondanti, come la nostra, alzare i salari farebbe crescere occupazione e produttività […]

(DI PASQUALE TRIDICO – ilfattoquotidiano.it) – In una economia avanzata, ma con crescita stagnante, salari fermi, e risparmio e ricchezza abbondanti, come la nostra, alzare i salari farebbe crescere occupazione e produttività.

Il nostro Paese negli ultimi due decenni ha utilizzato la leva della flessibilità del lavoro e dei bassi salari per continuare a competere, senza fare innovazioni. Questo è valso soprattutto nei settori dei servizi, dal turismo ai trasporti, i servizi alla persona, la ristorazione, l’agricoltura, dove tra l’altro i margini di innovazione sono naturalmente ridotti. Aumentare, in questi settori, la manodopera, vuol dire accontentarsi di produttività bassa, e salari bassi. Uno choc positivo in questi settori, come l’introduzione di un salario minimo legale, farebbe prima di tutto selezione di investimenti, e renderebbe più difficile fare competizione attraverso il lavoro. Vorrebbe dire che solo laddove ci siano margini di profitto realizzabili e adeguati, grazie all’introduzione di innovazione, la produttività crescerebbe e il business andrebbe perseguito.

Si eviterebbe lo sfruttamento del lavoro, il “capitalismo di rapina”, come l’ha definito il presidente Mattarella il 15 settembre scorso nel suo discorso davanti all’assemblea di Confindustria.

In questi settori, la crescita della produttività sarebbe quindi conseguente a un aumento del salario, che avverrebbe in una prima fase, con un assorbimento di minore manodopera.

Nella seconda fase gli incrementi di produttività, la qualità del lavoro e i più alti salari, attrarrebbero maggiore offerta di lavoro, proprio in questi settori che lamentano spesso difficoltà nel trovare manodopera e posti vacanti non coperti. Quindi, anche l’aumento dell’occupazione sarebbe conseguente all’aumento del salario e all’introduzione di un salario minimo legale.

Aprire pizzerie a ogni angolo di città può essere una strategia perseguibile per il singolo imprenditore nel breve periodo, ma nel lungo periodo, non porta vantaggi di produttività, non si accrescono le competenze, non si utilizzano i capitali in modo efficiente e responsabile, a livello macro, verso la società.

Nell’ultimo decennio la Germania, soprattutto dopo aver introdotto il salario minimo a poco meno di 9 euro nel 2015, ha tenuto la crescita dei salari a un livello superiore alla crescita della produttività. Questo ha favorito una rincorsa della produttività spinta da una selezione di investimenti, e da maggiori innovazioni. Così il salario minimo in 8 anni è cresciuto del 30%, sopra i 12 euro nel 2023. E anche l’occupazione in Germania in questi 8 anni, dall’introduzione del salario minimo, è cresciuta, dal 72% al 77% (mentre in Italia è sempre stata intorno o sotto al 60%).

Alla stessa assemblea di Confindustria del 15 settembre, davanti al presidente della Repubblica, Carlo Bonomi ha affermato che “il salario minimo non risolve i problemi”. Qui bisognerebbe citare Federico Caffè e replicare che dipende da quel che si ha in mente: sicuramente risolverebbe un po’ di problemi ai lavoratori poveri. Certo aggraverebbe i problemi di chi fa uso di “capitalismo di rapina”, per citare ancora Mattarella. E risolverebbe anche alcuni problemi di concorrenza sleale che le aziende sane, che fanno innovazione, si trovano a pagare. Alla fine, quindi, il salario minimo risolverebbe alcuni problemi della nostra economia e spingerebbe l’innovazione in un circolo virtuoso che porterebbe maggiore occupazione.

Un ragionamento molto simile è stato portato avanti anche nell’introduzione, da parte dei vertici, al workshop di Banca d’Italia-Cepr sulle politiche per il mercato del lavoro il 17 settembre scorso, secondo cui: “Le istituzioni (come il salario minimo) svolgono un ruolo cruciale nel definire la redistribuzione ai lavoratori delle rendite economiche accumulate dalle imprese a causa del loro potere monopsonistico (quando, a fronte di molti venditori, c’è un solo compratore, ndr) sul mercato del lavoro. Le imprese esercitano il loro potere offrendo salari bassi e contratti temporanei e a breve termine. Mentre le politiche che incoraggiano le aziende a offrire contratti a tempo indeterminato e a tempo pieno e salari più alti possono innescare un processo positivo”. In altre parole, queste politiche non solo sono un presidio a tutela dei lavoratori ma spingono anche la dinamica della produttività. Del resto lo stesso governatore Visco, nella sua relazione annuale a maggio scorso aveva accennato, brevemente, a questo, quando affermava che al ristagno della produttività aveva contribuito anche la bassa efficienza dei processi produttivi in settori a scarso contenuto tecnologico, che sono accompagnati da condizioni di precarietà del lavoro prolungate e da bassi salari, soprattutto per i giovani, per i quali l’introduzione di un salario minimo risponde tra l’altro a esigenze di giustizia sociale.