Ora tutti la piangono: per anni ha faticato, ma è riuscita a conquistarsi una casa con un giardino “felice”. Non ero un’amica intima di Michela Murgia, i suoi amici intimi, la sua famiglia […]

(DI SELVAGGIA LUCARELLI – ilfattoquotidiano.it) – Non ero un’amica intima di Michela Murgia, i suoi amici intimi, la sua famiglia erano altro. Eppure, tra me e Michela c’era intimità. Il merito era solo suo perché, come ha scritto Chiara Valerio, lei aveva un talento potente nel creare legami. Michela c’era quando succedevano le cose importanti, quando pensavi di essere sola a notare i dettagli, quando era il momento di infilare la battuta giusta e ridere o arrabbiarsi per quello che non andava nel mondo. Michela è stata molte cose e in questi ultimi mesi, dopo la rivelazione della sua malattia, molti si sono affannati a elencarle. È stato un periodo di celebrazioni e di amore dissotterrato all’improvviso, anche. Ammetto di aver fatto fatica a osservare riconoscimenti affettuosi, certo, ma tardivi. Perché Michela è stata troppo spesso sola quando scontava la punizione violenta della sua esposizione. E ne ha sofferto. Soffriva il silenzio dei colleghi di giornale quando subiva attacchi politici, quello di tanti intellettuali codardi che la abbandonavano sulla prima linea, quello di chi giurava di stimarne il coraggio, ma solo su whatsapp. “Mi avete riempita di merda, potevate dirmelo prima che mi stimavate!”, mi ha detto alzando gli occhi al cielo, col sorriso, qualche giorno prima di morire.

Michela ha avuto l’affetto e i riconoscimenti che meritava, ma li avuti troppo tardi, condensati in un periodo dopato dal pietismo e questa è sì una riparazione, ma anche un’ingiustizia profonda. Lei lo sapeva, tanto che alla fine non voleva più fare video: “Non voglio più apparire con la mia faccia, la malattia ora è più forte del resto, toglie attenzione alle parole”. Michela sapeva anche altro però. Sapeva quanto la sua nicchia della prima ora la amasse con le corde dell’idolatria. In tanti anni non ho mai visto l’autentica adorazione che fan e lettori provavano e provano per Michela riservata a qualcun altro. E utilizzo il termine “fan” perché non ne esiste uno più esatto. C’è chi ha creato oggetti per lei, chi ha disegnato i suoi abiti, chi si è tatuato il suo volto, chi ha creato fanbase, chi ha invocato la sua attenzione pure nella malattia, talvolta con l’invadenza vampiresca di chi chiede un pezzo di te fino all’ultimo, anche quando non c’è più la forza. Che poi, Michela di forza ne aveva ancora tanta. Non nel fisico, certo, ma la sua essenza era ancora tutta lì, e questo è un regalo che la vita le ha fatto. Michela è stata divertente, lucida, spietata e accogliente come sapeva essere lei fino alla fine. L’assenza da se stessa, lei che era così presente in tutto, sarebbe stata un’ingiustizia intollerabile.

L’ho salutata i primi di agosto, alla vigilia della mia partenza per le vacanze, ed era entusiasta perché era riuscita a comprare grazie a un sudatissimo mutuo una casa con il giardino. Quel giardino era il suo pezzo di terra felice. Ne parlava con orgoglio, le piaceva ascoltare le voci degli amici che lo popolavano la sera, era fiera del pergolato, delle lucine, del rumore della fontana con i pesci che arrivava dalla casa accanto. Quel giardino, nelle sue parole e nei suoi occhi felici, aveva il sapore della conquista. Era la bandierina piantata dal colono sul suo lotto di terra, dopo tanta fatica, tanta strada. Lei che era stata povera (“Per tanti anni ho faticato a mettere insieme il pranzo con la cena”), aveva dovuto lavorare tanto su se stessa per auto-assolvere il suo benessere, e poi c’erano stati i sensi di colpa, il fare i conti con il privilegio che è sempre un vestito troppo stretto o troppo largo, perché “la fame, se l’hai provata, non te la togli più di dosso”. Un benessere, il suo, che non era ricchezza, sebbene qualcuno fino alla fine abbia parlato di “casa ai Parioli”, facendola incazzare moltissimo. Michela indossava gli abiti di Dior e di Valentino per ricordare a se stessa che se li era meritati, per scrollarsi di dosso quel pauperismo che è stato zavorra per troppo tempo. Lo stesso pauperismo, forse, che le faceva brillare gli occhi per quel fazzoletto di terra tutto suo e della sua famiglia. A Michela dispiaceva morire. “Non posso morire adesso che ci sono così tante rivoluzioni da fare, proprio ora che c’era da divertirsi”, mi ha detto. Nel frattempo, mentre parlavamo del tempo che va usato bene, con il coraggio di fare le cose quando se ne ha ancora abbastanza, mentre mi faceva promettere di proteggere una persona a cui vuole bene, mentre sorridevamo perché lei stava male, sì, ma non riusciva a smettere di arrabbiarsi per tutto quello che era storto e “mi vedi così ma la sera ringhio ancora qui nella stanza”, mentre mi raccontava della faticosa meraviglia del suo ultimo viaggio a Parigi per assistere alle sfilate, mangiava un cono gelato con la voracità di una bambina. “Non fa bene al mio glucosio, ma nella mia situazione che importa”.

Poi ci sono le cose che rimarranno nostre, conservate in un altro giardino, quello dell’intimità della fine, quando non sai se ti rivedrai e pensi che sia giusto dirsi il più possibile. Michela era potente e fragilissima, aveva il rimpianto di non aver pianto abbastanza, di aver lasciato che molti, troppi credessero che a lei, così forte, tutto scivolasse addosso. Se ne è andata protetta dalla malattia, ma avrebbe meritato una protezione più larga e tenace in ogni singolo momento della sua vita di intellettuale e attivista. Se ne è andata amata, ma avremmo dovuto amarla meglio e di più. Michela era quel gelato mangiato nel letto. Michela era rivoluzione.