Fanno piuttosto impressione i messaggi di cordoglio di tanti giornalisti per la morte di Andrea Purgatori. Si va dal semplice “Ciao” alla giusta ammirazione per le sue inchieste: su Ustica, su Emanuela Orlandi e […]

(DI BARBARA SPINELLI – ilfattoquotidiano.it) – Fanno piuttosto impressione i messaggi di cordoglio di tanti giornalisti per la morte di Andrea Purgatori. Si va dal semplice “Ciao” alla giusta ammirazione per le sue inchieste: su Ustica, su Emanuela Orlandi e il Vaticano, su molte indagini continuate per decenni a dispetto di depistaggi, intralci, minacce. Commuove specialmente il cordoglio dei reporter che gli erano amici. Ma non ce n’è uno, tra i giornalisti d’inchiesta, che alzi il dito e dica: continuerò le indagini che Purgatori cominciò toccando appena un lembo di verità – non mi lascerò intimidire da minacce di censura e a mia volta non peccherò di autocensura –, nessun potente potrà farmi dormire nel suo letto come accade ai reporter di guerra embedded, per l’appunto, negli eserciti graditi alla Nato.
Non che manchi il coraggio, nei cronisti e reporter delle generazioni successive a quella di Purgatori. Soprattutto non manca il desiderio di fare come lui, di insistere nello scavare per dieci-venti-trenta-quarant’anni, quando tutto congiura contro il tuo incaponimento. Quel che manca tragicamente, nel giornalismo d’inchiesta, è il committente. Contrariamente al criminale che ha alle spalle il mandante, il cronista non ha alle spalle nessuno che commissioni l’indagine, ti preservi dalle autocensure, ti permetta per decenni di non mollare l’osso neanche quando il riflettore Tv si spegne.
Perfino Sigfrido Ranucci di Report dice le cose a metà, anche se un bel po’ ne dice: “Da oggi mi sento più solo… Senza il suo coraggio, senza le sue qualità molte nefandezze sarebbero rimaste oscure. Ci ritroveremo da qualche parte, sono sicuro. E saranno cazzi loro!”. Quel che Ranucci omette di aggiungere è: caro Purgatori, indagherò anch’io sulle nefandezze che volevi veder punite e che restano tuttora oscure.
Privi di proprietari all’altezza, i giornali scritti sono morti viventi, guidati da direttori che amministrano bancarotte e funerali neanche troppo pomposi della professione. Questo il compito che assegna loro il falso committente, che si fa chiamare editore ed è in realtà un industriale o finanziere che paga per avere un giornale-lobby anziché cronisti e reporter davvero indipendenti. Son pochi i giornali decisi a smontare frase dopo frase il grumo di menzogne e accuse ai media non asserviti che persone come Marina Berlusconi presentano come verità. I giornali più venduti e meno poveri, chiamati “giornaloni”, sono spesso i più venduti anche nel senso brutto dell’aggettivo. Né è diverso in Tv. Anche le reti private fiere di non essere lottizzate sono stracolme di talk perché complici senza quattrini di poteri ostili a inchieste anticonformiste.
Non succede solo in Italia. Seymour Hersh svelò la strage di My Lay perpetrata dagli Usa in Vietnam, scoperchiò le torture di prigionieri iracheni ad Abu Ghraib, ma quando scrisse cose non grate sull’uccisione di Bin Laden ordinata da Obama, il New Yorker gli chiuse la porta. Oggi continua le sue inchieste nella piattaforma Substack.
Un giovane che aspiri a incaponirsi come Purgatori deve saperlo: il venir meno di un committente che punti su giornalisti indipendenti ha come conseguenza la mancanza di remunerazioni che permettano di resistere alle minacce, di rispondere No alle pressioni esterne. Purgatori fa parte di una generazione che non conosceva ancora i cronisti pagati due lire o addirittura non pagati, disposti a fare il gratuito lavoretto pur di inserirlo nel curriculum.
Mi piacerebbe leggere i messaggi di costernato cordoglio di questi ultimi (ultimi in tutti i sensi). Mi piacerebbe anche che qualcuno cogliesse l’occasione per esigere la depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa, e di ogni legge bavaglio. Non avrei la sensazione, strana e iperreale come gli incubi, di salutare un elefante del giornalismo freddato d’un sol colpo.
Bel rilievo. Una domanda: lei è troppo in là con gli anni per raccoglierne il testimone?
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Ma perché i giornalisti non si informano? Seymour Hersh ha rotto i rapporti col New Yorker sì perché il New Yorker gli rifiutò l’articolo sulla cattura di Bin Laden, ma perché quell’articolo era pieno di inesattezze e basato essenzialmente sulle dichiarazioni de relato (cioè di chi non c’era ma ha raccolto un sentito dire) di due persone (presumibilmente due militari pachistani) in pensione da anni. E soprattutto non ci sono prove documentali.
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Disse que!!o che fa propaganda ascoltando radio free europe e leggndo topo!ino.
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Ma vai a studiare minorato.
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Non sarei così categorico.
Quando si tratta di operazioni CIA a volte la realtà supera l’immaginazione.
Questo è un articolo pubblicato sul Manifesto nel 2015.
Pubblicato 8 anni fa
Edizione del 23 maggio 2015
Emanuele Giordana
Si chiamava Medical Pattern of Life: Targeting High Value Individual #1 e fu elaborato nel 2010 dalla National Security Agency che lavorava con la Cia alla caccia di Osama bin Laden (Obl).
Secondo il sito americano di Greenwald The Intercept non è chiaro se quel piano, prelevare il Dna dei sospetti con campagne di vaccinazione in Pakistan, sia mai entrato in produzione. Ma certo il progetto – rivelato dai file di Snowden – aggiunge un nuovo capitolo all’oscura morte di Obl avvenuta nel maggio del 2011 e al centro di furiose polemiche da che Seymour Hersh, vecchio giornalista d’inchiesta, ha pubblicato la sua ricostruzione di quella vicenda su cui l’Amministrazione avrebbe raccontato un mucchio di balle.
Smentito dalla Casa Bianca e ridicolizzato da molti suoi vecchi colleghi, Hersh per ora sta zitto ma dal suo articolo ogni giorno è un colpo di scena. Mercoledì la Cia ha desecretato un centinaio di file sequestrati nel rifugio di Abbottabad dove Obl fu ucciso: file, liste di libri e dossier che però non dicono nulla sul personaggio che già non fosse noto. Ne esce un quadro teoretico scarso (da cui in sostanza emergono gli Usa come unico vero nemico) e un profilo che sembra più buono per la stampa rosa che non per archivisti e ricercatori: schede per associarsi ad Al Qaeda, un compendio di dottrina islamica, libri vari e lettere private.
Allettanti per la stampa. Può darsi che il materiale «sensibile» sia rimasto agli 007 ma sorprende che la biblioteca dello sceicco avesse tutta roba facilmente reperibile e piuttosto datata. Nessun dossier del 2011 (bin Laden è morto a maggio) e poco del 2010. Lista incompleta oppure Obl aveva… smesso di aggiornarsi.
Anche le riviste sono stagionate (c’è giusto un mensile popolare di scienza del dicembre 2010). Visto che non c’è motivo per non dar conto delle letture recenti, chissà se i film porno – recuperati ad Abbottabad ma non desecretati – non contengano di più: ennesimo segreto buono per sbizzarrirsi e da unire all’afrodisiaco ritrovato nella sua camera.
L’operazione di trasparenza voluta da Obama e dalla Cia finisce così a rendere più sospettosi che sereni e del resto una recente ricostruzione di Frontline (sito di video informazione) taccia come operazione di propaganda il prodotto di chi ebbe davvero accesso ai file segreti: Zero Dark Thirty, il film diretto da Kathryn Bigelow che, spiega Frontline in «Segreti, politica e tortura», sostiene puntualmente la versione ufficiale tanto da sembrare una esperta e pilotata operazione di immagine che giustificava la tortura grazie alla quale si ottenne l’informazione sul famoso corriere di bin Laden. Mai esistito secondo Hersh.
E in soccorso a Hersh, paradossalmente, arriva un’accusa di plagio della blogger Raelynn Hillhouse che lo accusa di aver copiato un suo vecchio post (lui nega di averlo mai letto) e di non essere affatto originale: lei, nell’agosto 2011, già scriveva che la Casa Bianca aveva costruito una storia falsa sulla morte di Obl, il cui rifugio era stato scoperto grazie a una soffiata; che il Pakistan aveva in custodia bin Laden, che anche Riad sapeva e che gli Usa ricattarono i vertici militari pachistani per ottenere la loro collaborazione. Le similitudini tra i due pezzi sono parecchie. O la fonte è la stessa e ha imbrogliato entrambi oppure la storia – raccontata due volte con qualche differenza – rafforza i sospettosi.
D’altro canto anche il generale Durrani, già direttore dei servizi pachistani (Isi) agli inizi degli anni Novanta, aveva detto ad Al Jazeera nel febbraio scorso che era molto probabile non solo che l’Isi sapesse dov’era bin Laden ma che gli avesse dato rifugio.
Pubblicato 8 anni fa
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Criticare qualcuno perché non ha detto quello che voleva che dicesse mi sembra proprio puerile.
Quante parole si sprecano che poi non sono seguite dai fatti. Il solito schema “doveva dire che…, doveva parlare di…” e se non dice quello che si vuole che dica oerché magari il momento, la situazione non lo richiede allora lo si condanna. Mah!
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Io non lo so se Seymour Hersh avesse ragione o no nelle cose che ha scritto, quello che dico è che la sua rottura col New Yorker non è stata dovuta a pressioni da parte dell’amministrazione Obama come dice la Spinelli, ma al fatto che il New Yorker non glielo pubblicò perché non era supportato da documenti probatori.
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L’appunto su Ranucci, che secondo la Spinelli doveva dire “indagherò anch’io…” mi sembra del tutto fuori luogo… Ce ne fossero come Ranucci… Piuttosto poteva/potrebbe dirlo a sé stessa.
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