Le amnesie di Giorgia

(PAOLO COLONNELLO – lastampa.it) – Lo scontro in atto con la magistratura, negato con una mano e attizzato con l’altra, alla conferenza stampa di Vilnius, rivela come anche per Giorgia Meloni, a dispetto delle parole («nessuna volontà di aprire un conflitto»), le toghe siano diventate ormai una vera ossessione da punire con riforme brandite come armi contundenti.

In un luogo incongruo come quello di un vertice Nato, dove si dovrebbe parlare di delicate questioni internazionali, la premier è costretta invece a dover parlare di beghe giudiziarie di casa nostra. Rivendicando il comunicato di Palazzo Chigi che una settimana fa attribuiva a indeterminate “fonti” l’accusa ai magistrati impegnati nelle inchieste che coinvolgono esponenti della maggioranza, di agire per svolgere un “ruolo attivo di opposizione”, anticipando la campagna elettorale per le europee. Uno scenario al limite del paranoico che ha costretto la magistratura a chiedere di non essere delegittimata sul fronte di indagini molto delicate. E assai fastidiose. Due in particolare sono le vicende che risultano più urticanti per Giorgia Meloni. La prima riguarda l’imputazione coatta (e non «coattiva») del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Dalmastro, autore di una clamorosa fuga di notizie riservate sull’anarchico Cospito utilizzate per colpire le opposizioni. Proposto per un’archiviazione dal pm, secondo il gip sussisterebbe invece nei confronti di Dalmastro sia l’elemento oggettivo che soggettivo per una richiesta di rinvio a giudizio. Normale dialettica giudiziaria che invece per Meloni si trasforma «sicuramente in un caso politico». «Per come la vedo io – chiarisce Meloni – in un processo di parti, la terzietà del giudice significa che il giudice non dovrebbe sostituirsi al pm imponendogli di formulare l’imputazione…Ne parlerò con Nordio», conclude. Siamo insomma alla giustizia fai da te, dove decide il premier l’interpretazione dei codici, nel totale disprezzo della separazione dei poteri tra organismi dello Stato. Un attacco talmente pesante alla giudice che ha firmato il provvedimento da far chiedere alla corrente di “Area” un intervento a tutela del Csm. L’altra questione riguarda invece il caso della ministra Santanché, che secondo il presidente del Consiglio sarebbe caduta vittima di un’imboscata di magistrati e giornalisti, uniti nella lotta per la solita “giustizia a orologeria” di berlusconiana memoria. Non è giusto, ha sottolineato la premier, che Santanché il giorno in cui ha parlato in Senato abbia saputo di essere indagata da un articolo di giornale. Un complotto ordito direttamente dall’editore de Il Domani, chiamato direttamente in causa dal Presidente del Consiglio in un “j’accuse” che non ha precedenti nei rapporti tra politica e giornalismo. Peccato però che la circostanza fosse stata scritta sui quotidiani fin dall’anno scorso, a partire da La Stampa che pubblicò un articolo di Monica Serra il 3 novembre 2022. E che la stessa Procura abbia chiesto una proroga dell’inchiesta fin dal marzo scorso dissecretando di fatto l’iscrizione sul registro degli indagati. Piccoli tasselli di verità che disturbano ovviamente il racconto fintamente conciliante di una premier che lancia l’ultimo avvertimento perfino sul caso del figlio del presidente del Senato, Ignazio La Russa, augurandosi «che la politica possa restarne fuori», ben sapendo come siano state le stesse dichiarazioni di La Russa a gettare nell’agone politico un caso delicatissimo, che Meloni risolve con un colpo al cerchio e uno alla botte: capisco papà La Russa che però avrebbe fatto meglio a tacere ma sono solidale anche con la ragazza che ha denunciato la violenza sessuale. Un quadro sconfortante, dove le riforme sulla giustizia evocate anche ieri assumono ancor più il sapore di una vendetta e non, come dovrebbe essere, di un’esigenza condivisa del Paese.