L’Arabia Saudita vuole battere il Qatar per diventare anche la nuova meta del turismo. Ma perché tutto questo investire? E perché adesso? I petrogol non spaventano soltanto gli europei

Perché l’Arabia investe tanto nel calcio: la sfida al Qatar (non solo nel calcio): cosa c’è dietro

(di Francesco Battistini – corriere.it) – In business class, c’è un trono d’oro. Al piano superiore, le camere da letto king size. E le tovaglie di seta coi fiori, le poltrone relax, i tavoli da gioco, l’area massaggi, le sale riunioni. Che sfarzo: «Non avete visto ancora nulla… » spiega un reporter dell’Arab Times, che ci ha già viaggiato e si stupisce del nostro stupore. «Quel video twittato da Ogdon Ighalo, mentre con l’Al Hilal va in trasferta sul Boeing privato, mostra una cosa normale nel calcio saudita. Ighalo sembra un bimbo al luna park! Invece è solo all’ingresso, del luna park… ». L’attaccante nigeriano, che una volta si muoveva coi pullman del Cesena, ha postato le immagini dalla reggia volante. Incantandosi, incantandoci. Ma è ora che s’abitui: il Boeing 747-400 dell’Al Hilal, riedizione dell’Air Force One dei presidenti Usa, vale lo stipendio annuo d’un paio dei suoi compagni di squadra. Ed è un benefit piccin piccino. I calciatori in Arabia (CR7 docet) hanno a disposizione ben altro: campi da golf climatizzati, chef stellati, piscine olimpioniche, scuole internazionali, negozi privati, spa con le rubinetterie d’oro… Persino la loro servitù filippina può contare su ingressi riservati nei supermarket. «Oggi Riad — dice il giornalista — è il posto migliore per giocare e godersela».

Ma quali petrodollari: la moneta forte è il petrogol. Accumulabile in quantità, spendibile nel mondo, rivalutabile nel tempo. Alla Fiera del best (player) calcistico, fuori mercato i russi e fuori moda i cinesi, torna il bene rifugio degli arabi. Nella versione doc dell’Arabia più pura, i Saud. I guardiani della Mecca, la dinastia che sta per celebrare il secolo di regno e intanto fa festa santificando la sua seconda religione: il calcio. La Pietra Nera che custodiscono alla Kaba è grande più o meno come un pallone e i nuovi dispensatori di cachet a Benzema e a Kanté, a Koulibaly e a Neves, sono stati i più lesti a sfruttare l’effetto di Qatar 2022. Chi, del resto, se non la Saudi National League custode delle Due Sacre Moschee? «Per la prima volta al di fuori dell’hajj, il pellegrinaggio alla Mecca — pensa Amyn Kableh, commentatore di Al Jazira —, gli ultimi Mondiali sono stati il più grande pellegrinaggio globale in uno Stato arabo. Nessuno è venuto qui con atteggiamenti di superiorità. Ci siamo sentiti uguali. Ed è passata un’immagine diversa dei “nuovi arabi”: non siamo più i beduini selvaggi, i ricconi ipocriti che bevono alcol, i fanatici drogati che tagliano teste… ».

Arabi nuovi, arabi contro. Ma perché tutto questo investire? E perché adesso? Non credete che l’ascesa del Qatar — l’emiro Al Thani al Psg, ma pure gli Emirati Uniti con Bin Zayed al Manchester City, o il Bahrein che sogna sempre di comprarsi una milanese — non credete che tanti petrogol spaventino solo noi europei. I primi a preoccuparsi sono gli altri paperoni del Golfo. Per esempio, i sauditi. Che sanno quanta egemonia nazionalpopolare, softpower si dice ora, passi per la diplomazia pallonara (c’è modo migliore per lanciare 1.700 km di costa stile Maldive? O la nuovissima e futuristica città dello sport, grande il doppio di Milano, una Las Vegas del football per 17 milioni di turisti a 40 km da Gedda?). Che non disdegnano lo sportswashing, il lavarsi le mani sporche, garantito dalla popolarità curvaiola (cosa c’è di meglio per propalare il «rinascimento saudita» di Mohammed Bin Salman e far dimenticare la repressione di donne e Lgbtq, le carneficine nello Yemen, la schiavitù dei migranti, la galera ai dissidenti, l’omicidio Khashoggi?). Che non accettano più sia la Qia (Qatar Investments Authority) a fare il mercato coi suoi 300 miliardi di dollari e, dopo cauta attesa, hanno deciso d’entrare coi 500 miliardi del loro Pif (Public Investment Fund). «L’arrivo dei sauditi è la grande novità — confida un manager sportivo che li conosce da sempre —. Ma è miope pensare che entrino nel calcio per rifarsi una verginità: sanno d’essere quel che sono e non gl’importa convincerci del contrario. Sanno d’avere molte donne nei posti di comando e che la loro sarà una lenta evoluzione. Hanno anche una visione della religione molto più pragmatica di quel che crediamo: non è un ostacolo, se si tratta di fare affari ovunque e con chiunque. A loro non interessa piacere agli europei. Sanno che occorre tempo. Loro, al momento, si rivolgono soprattutto a un certo mondo arabo».

Il mantra saudita è uno solo: fare come il Qatar, meglio del Qatar. E siccome il pallone è la continuazione della politica con altri mezzi, ecco che l’eterna sfida del Golfo fra due Paesi sunniti che hanno impiegato più di vent’anni a riconoscersi nei confini, e da altrettanti sognano di monopolizzare l’etere arabofono (Al Jazira contro Al Arabiya), ora è una sfida sportiva. A Doha e a Riad, da sempre pensano il peggio gli uni degli altri: con questi che proteggevano Bin Laden e però accusavano quelli di finanziare l’Isis; con quelli che contendevano a questi le basi Usa e il gas sottomarino; con questi che imponevano l’embargo a quei «terroristi» troppo amici del turco Erdogan, e quelli che temevano le incursioni saudite in Libia, a sostegno del generale Haftar… Due anni e mezzo fa, su pressione d’americani e israeliani, per la paura della minaccia sciita dall’Iran, qatarioti e sauditi hanno finto di chiudere le loro ostilità politiche. Aprendo però quelle sportive: Riad non ha ancora digerito che Doha le abbia scippato (in casa) la Coppa d’Asia 2019; Doha accusa Riad di piratarle le immagini d’un canale tv sportivo; Riad copia a Doha il progetto Vision che ha portato i Mondiali in Qatar; Doha irride Riad che s’è candidata ai Mondiali 2030 e poi s’è ritirata per non fare uno sgarbo al re del Marocco… Lo shopping di quest’estate è solo la continuazione dell’infinita sfida con altri mezzi: «A Riad però non ragionano come negli altri Paesi del Golfo — dice il manager —. E non vogliono fallire, come i cinesi col loro campionato. I grandi consulenti finanziari, Boston Group come McKinsey, sono tutti qui. Fra cinque anni, sarà normale venire in vacanza in Arabia. E guardare le loro partite stellari. Hanno una strategia di lungo periodo». Un tempo erano i nomadi del deserto, ora non più: «Sono arrivati per restare».