Nell’eterno corso e ricorso italiano la vicenda del Corvo di Palermo (lunedì scorso a Cose Nostre, Rai1) storicizza i rapporti ambigui (per non dire peggio) intercorsi tra uomini dello Stato ed esponenti mafiosi […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Nell’eterno corso e ricorso italiano la vicenda del Corvo di Palermo (lunedì scorso a Cose Nostre, Rai1) storicizza i rapporti ambigui (per non dire peggio) intercorsi tra uomini dello Stato ed esponenti mafiosi, a cavallo tra gli anni 80 e 90. È un omaggio alla figura di Giovanni Falcone per l’infame persecuzione di cui fu oggetto nel contesto di quella guerra ibrida. Rappresenta uno spaccato impressionante della conflittualità esistente dentro la magistratura italiana fatta di invidie, gelosie, rancori, odi personali, allora come oggi. Un girone infernale che, come emerge dal racconto di Emilia Brandi (grazie a una scrittura nitida e al ricchissimo archivio Rai) ebbe come principale bersaglio la delegittimazione di quelle toghe coraggiose impegnate nella costruzione del Maxi-processo e di chi incarnò quella impresa.

Giovanni Falcone, perfino accusato di manovrare quel Totuccio Contorno (sodale del superpentito Tommaso Buscetta) che i veleni del Palazzo di Giustizia e della Questura indicavano come il killer incaricato di eseguire degli “omicidi di Stato”, su incarico indovinate di chi. Un’accusa assurda cui i mandanti della destabilizzazione ben presto rinunciarono per dare seguito alle trame sul fallito attentato dell’Addaura: la borsa imbottita di tritolo rinvenuta a pochi metri dalla villa di Falcone e il cui innesco fu fatto esplodere per cancellare qualsiasi traccia del complotto. Che, difatti, i soliti noti attribuirono a colui che doveva esserne il bersaglio, un auto-attentato per arricchire il suo martirologio in funzione della nomina al vertice del pool Antimafia di Palermo. Fallita anche questa macchinazione, ecco spuntare le lettere anonime contro Falcone e altri suoi colleghi di cui fu accusato il giudice Alberto Di Pisa, prima condannato sulla base delle impronte sulla tazzina di caffè (raccolte personalmente dall’Alto commissario antimafia, Domenico Sica) e poi assolto al termine della indegna farsa. I conti con Falcone saranno poi saldati a Capaci, resta però incancellabile la convinzione che, oltre a essere il naturale bersaglio di formidabili interessi criminali, sia stata la sua fama leggendaria a renderlo inviso nel suo stesso ambiente. Parliamo di vicende assai diverse, ma è il medesimo odio che ha finito per colpire due popolarissime figure del pool di Mani Pulite: Antonio Di Pietro e, più recentemente, Piercamillo Davigo condannato per rivelazione di atti d’ufficio. Chi diavolo si credevano di essere?