LA DEGENERAZIONE DELL’ANTIFASCISMO MILITANTE – Acca Larentia, l’omicidio dei missini realizza il passaggio dalla lotta politica alla “guerra” Mentre pezzi della destra continuavano a flirtare con i golpisti e le bombe […]

(DI GAD LERNER – ilfattoquotidiano.it) – “La Resistenza ce l’ha insegnato, uccidere i fascisti non è reato”. “Le sedi fasciste si chiudono col fuoco, con i fascisti dentro se no è troppo poco”. “Tutti i fascisti come Ramelli con una riga rossa fra i capelli”.
Si gridavano eccome, questi slogan crudeli, nei cortei della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. Chi può negarlo? E a poco valsero le critiche di chi già allora all’interno del movimento ne evidenziava la disumanità, con l’unico risultato di venir tacciato di “opportunismo di destra” da chi guidava le manifestazioni di piazza, cioè i servizi d’ordine. A partire dalla strage di piazza Fontana del 1969, fino a toccare il suo culmine alla metà degli anni Settanta, un di più di efferatezza finì per screditare l’esperienza dell’antifascismo militante. S’impose un compiacimento morboso nell’esibire la faccia feroce del guerriero pronto a uccidere il nemico. E ciò avveniva quando ancora, a sinistra, la stagione degli omicidi politici intenzionali – la lotta armata – era di là da venire. Negli scontri con i fascisti venivano usati la spranga e il fuoco delle molotov, mai il coltello. Le Brigate Rosse perpetrarono il loro primo duplice omicidio nel 1974 durante un’irruzione nella sede del Msi di Padova, ma dichiararono essersi trattato di “un incidente sul lavoro”. Fu solo nel gennaio 1978 che a Roma, in via Acca Larenzia, i giovani di destra furono presi di mira a colpi di pistola con l’esplicita volontà di uccidere.
Naturalmente la viltà dell’agguato a colpi di chiave inglese che stroncò la vita di Sergio Ramelli a Milano nel 1975 non trova attenuanti nel fatto che volessero colpirlo senza ucciderlo. Tantomeno trova attenuanti nel suo corollario tragico e poco noto: il suicidio di Roberto Grassi, l’ideatore dell’aggressione, avvenuto nel 1981. La degenerazione dell’antifascismo militante, sia nel linguaggio che nella parossistica “caccia al fascio”, trova solo parziale spiegazione nell’idea allora diffusissima che la violenza svolgesse l’inevitabile funzione di levatrice della storia. Ciò veniva teorizzato a destra come a sinistra da chiunque aspirasse a cambiamenti politici radicali. Dovremo pur chiederci come mai tale pulsione mortifera giunse a ossessionare tanti giovani italiani, dando luogo a quella che Luigi Manconi, nel libro appena scritto con Gaetano Lettieri, Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia (il Saggiatore) definisce una vera e propria “lotta fratricida”. Va pur ricordato, però, come tale sovreccitata escalation abbia dato luogo a un moto di ripulsa che iniziò a diffondersi tra i militanti del movimento soprattutto dopo Acca Larenzia, percepita come terribile punto di non ritorno. Il quotidiano dell’ormai disciolta Lotta Continua, che pure aveva avuto tanti compagni uccisi dai fascisti, se ne fece portavoce. Lo ricordo per averlo vissuto in prima persona. Di fronte a quelle tre vite spezzate di nostri coetanei avversari politici, definimmo subito “L’assurda ‘azione’ del Tuscolano” (questo il primo titolo) come “una perdita del comune discernimento che – ed è il rischio più grave – può diventare irreversibile e trasformare la battaglia antifascista in un regolamento di conti”. Parlammo di “un abisso incolmabile”, di “salto nel buio catastrofico”. Quella notte stessa, a Milano, Radio Popolare ruppe un tabù. Nel corso del “microfono aperto” mandò in onda, senza censurarle, alcune telefonate di giovani di destra, che erano costernati quanto noi. Era la prima volta che si svolgeva un confronto diretto, non solo uno scambio di invettive, tra militanti di quelli che venivano chiamati “gli opposti estremismi”. O meglio non succedeva da dieci anni, cioè da quando, nel marzo 1968, Giorgio Almirante aveva personalmente guidato un assalto squadrista all’università di Roma occupata, forse anche per dissuadere gli studenti missini attratti dal movimento di rivolta.
Lotta Continua, nei giorni successivi al delitto di Acca Larenzia, pubblicò quelle che vennero definite “le telefonate dello scandalo”, seguite da un acceso dibattito nel quale finalmente trovavano spazio argomentazioni non solo di opportunità politica, ma di natura morale. Naturalmente non mancarono le accuse di “eccesso umanitario”. Ma intanto, assieme alla pratica della caccia all’uomo, vennero sottoposti a critica anche gli slogan truculenti dei cortei.
Torno alla “dinamica fratricida” e “cannibalica” evocata da Manconi, che per un breve periodo fu responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. A suo parere il Sessantotto, fallito l’obiettivo di spodestare i padri, si sarebbe ridotto in scontro per l’egemonia tra “fratelli separati” che, soprattutto dopo la strage di piazza Fontana, diventeranno “nemici assoluti”.
È un’ipotesi suggestiva, ma ancora non spiega come mai in tali frangenti la sinistra extraparlamentare abbia goduto del sostegno pubblico di alcuni fra i più eminenti protagonisti della Resistenza antifascista. Cito fra gli altri Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Enzo Enriquez Agnoletti, Riccardo Lombardi, Umberto Terracini, Franco Antonicelli, che si fecero promotori di una campagna per la messa fuori legge del Msi. Non va dimenticato che tre Paesi a noi vicini, Grecia, Spagna e Portogallo, erano sottoposti a dittature di stampo fascista. E che nel 1972, di fronte alle lotte sindacali e all’avanzata delle sinistre, il filoatlantico Almirante nei comizi incitava a “prepararsi allo scontro fisico con le sinistre”. Oggi sappiamo che Pier Paolo Pasolini non era un visionario quando denunciava la possibilità di un colpo di Stato. Nel suo Ordine nero, guerriglia rossa (Einaudi) lo storico Guido Panvini cita i verbali di una direzione del Pci del 1971 riunita dopo che in pochi giorni era stato accoltellato il segretario della Camera del lavoro di Lecco, assalite la sede Uil di Milano e la federazione comunista di Palermo, senza alcun intervento della polizia. Fu il mite Umberto Terracini, in quella sede, a proporre, vista l’inutilità di “rispondere all’indomani di ogni azione squadrista”, “una giornata di battaglia dando l’indicazione di mettere a posto, luogo per luogo, i fascisti e le loro sedi”. Proposta discussa e scartata, ma quello era il clima. Il Msi, per giunta, tentava di incolpare la sinistra extraparlamentare degli attentati senza firma che mietevano vittime innocenti. Nel 1973 (l’anno dello stupro fascista di Franca Rame) un ex missino milanese, Nico Azzi, si mise in bella mostra con una copia di Lotta Continua in tasca sul treno Torino-Roma prima che una bomba gli esplodesse tra le mani, smascherandolo.
Tutto ciò, naturalmente, non giustifica l’involuzione dell’antifascismo militante, ma ne spiega il contesto storico. Il Msi continuava a rivendicare la superiorità del regime fascista rispetto al sistema democratico, tanto che Almirante nel 1972 firmò un volume di comparazione apologetica intitolato I due ventenni. La base del partito veniva preparata a scatenarsi in caso di vittoria delle sinistre. E tale disposizione antisistema si combinava senza imbarazzo con ricorrenti tentativi di condizionare da destra gli equilibri governativi e l’elezione dei presidenti della Repubblica. Tanti padri della Resistenza e della Repubblica diedero il loro appoggio all’antifascismo militante perché loro per primi si rendevano conto dei danni provocati dalla mancata epurazione degli apparati dello Stato nel dopoguerra, e dalla conseguente protezione di cui continuava a beneficiare l’azione squadristica. Se davvero è arrivato il momento di fare i conti con le ferite non rimarginate del Novecento italiano, è con questi dati di fatto che anche la destra deve trovare il coraggio di misurarsi.
articolo nella tipica logica di Lerner: dopo aver speso un fiume di parole per ricostruire i connotati dell’antifascismo violento di un certo periodo storico, chiude in due righe traendo la conclusione che era comunque colpa della destra.
con questi intellò qui, la Meloni può stare serena. e non renzianamente. altri 10 anni di governo non glieli leva nessuno.
"Mi piace""Mi piace"