
(Danilo Della Valle – lafionda.org) – È passato più di un anno ormai dall’inizio della guerra russo-ucraina e, di conseguenza, l’inasprimento del confronto tra Occidente (prevalentemente Usa) e Oriente (inteso come Russia e, prossimamente, Cina) è sempre maggiore, com’era prevedibile del resto. La partita a scacchi delle grandi potenze arriva sempre più pericolosamente in Europa e se l’Ucraina, come la Georgia, dove ultimamente l’instabilità sembra essere tornata di casa, e la Bielorussia hanno rappresentato le linee rosse per la Russia e al contempo le aree dove gli Usa hanno scelto di spingere per creare instabilità, i Balcani, in particolare Kosovo prima e poi Bosnia e Montenegro, possono significare per il Cremlino l’occasione per ribadire il proprio status di potenza globale e non solo regionale e alimentare tensioni alle porte dell’Europa Occidentale. Che il governo serbo, più o meno, e la quasi totalità del popolo serbo stiano dalla parte del Cremlino non può essere certo una sorpresa. I serbi non hanno mai dimenticato il 1999 e l’operazione “Allied Force” della Nato, una delle pagine più brutte della storia recente europea. 2300 attacchi aerei, 148 edifici e 62 ponti distrutti, 300 tra ospedali, scuole e istituti pubblici e 176 monumenti danneggiati, il tutto senza alcuna approvazione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Passeggiare per Belgrado oggi significa imbattersi nei murales che ricordano quegli avvenimenti o che sono dichiaratamente anti Nato/Usa/Uk, a cui i serbi attribuiscono gran parte delle colpe. E al contempo i muri della città sono invasi da scritte che inneggiano alla Russia, alla lettera Z simbolo dell’invasione russa (o dell’operazione speciale come la chiamano da quelle parti) e alla fratellanza ortodossa. Le auto sfoggiano tricolori serbi e russi al posto delle antenne. Del resto Belgrado, come Novi Sad, è uno dei luoghi preferiti dagli esuli russi per via dei pochi problemi che hanno nell’essere “accettati” senza troppi problemi da proprietari di case e dalle banche. L’unica cosa “buffa” è che molti degli esuli, fortemente critici nei confronti di Putin, sono costretti a dover incrociare il suo faccione o i simboli della guerra praticamente ovunque, dai negozi di souvenir alle bandiere fuori i balconi.
Del resto di questioni mai risolte nei Balcani ce ne sono diverse e la pentola a pressione è sempre sull’orlo di esplodere. Se fino all’anno scorso tutti avrebbero scommesso sull’infuocarsi della situazione bosniaca, dove i contrasti mai sopiti tra bosgnacchi, croato-bosniaci e abitanti serbi della Repubblica di Sprska si fondono con il proliferare di armi illegali nel Paese (la Bosnia è considerato il più grande market del contrabbando di armi dell’Europa) e con la radicalizzazione sul territorio di cellule islamiste, da un po’ di tempo il focus si è decisamente spostato in Kosovo. A distanza esattamente di un anno già diversi sono stati gli episodi che hanno innalzato la tensione; prima la richiesta di spiegazioni di Belgrado sulla fornitura di Javelin e Nlaw da parte della Gran Bretagna alle autorità Kosovare, poi lo scoppio delle proteste inerenti alla cosiddetta “guerra delle targhe” nell’area abitata dai serbo-kosovari, che ha portato a incidenti nel Nord del Kosovo ed infine alla vigilia del Natale ortodosso al ferimento a colpi di pistola di due giovanissimi serbi, di 11 e 20 anni, intenti a trasportare un “badnjak” (un ceppo di quercia tradizionale del Natale serbo), per mano di un albanese nel villaggio di Gotovucha, vicino Štrpce. Tutto ciò aveva portato ad un inasprimento dei rapporti e alla minaccia di un intervento militare da parte della Serbia per “proteggere” i serbi del Kosovo. Se a gennaio la minaccia di una escalation è rapidamente rientrata, grazie anche al dialogo promosso dall’Ue che non può permettersi una crisi alle porte del Mediterraneo, oggi la situazione si è ulteriormente complicata. A fare scattare la miccia questa volta sono stati gli insediamenti dei sindaci di etnia albanese nei comuni di Leposavić, Zubin Potok e Zvečan nel Nord del Paese a maggioranza serba. Le elezioni erano state indette a seguito delle dimissioni di massa delle autorità locali serbe, per protestare contro la decisione di Pristina di imporre le targhe automobilistiche emesse dallo Stato centrale anche nel nord del Paese. La comunità serba ha organizzato un boicottaggio di massa in vista delle urne di aprile in conseguenza del quale l’affluenza si è fermata al 3,90 %, favorendo nei fatti l’elezione di sindaci di etnia albanese. Chiaramente il motivo del boicottaggio non è semplicemente riferito alla questione delle “targhe”, come più volte sottolineato da diversi media; il reale motivo è che nel nord del Kosovo la popolazione non ha mai accettato Pristina come propria capitale né la dichiarazione di indipendenza del Kosovo dalla Serbia. Inoltre chiedono da tempo la creazione di un’associazione di comuni autonomi nella parte Nord del Paese, come sancito da un accordo, mai rispettato, siglato da Pristina e Belgrado a Bruxelles nel 2013, dove la mediazione dell’Ue fu decisiva.
Per questo gli scontri tra serbo-kosovari e forze della Kfor, a causa dei quali sono rimasti feriti anche 14 nostri connazionali, non possono destare sorpresa per molti addetti ai lavori, vista la situazione tesa che si respira di nuovo da tempo. Proprio in queste ore la presenza della Nato si è andata rafforzando: 700 soldati “per la zona dei Balcani occidentali”, poi “un altro battaglione delle forze di riserva in stato di massima allerta in modo che possa essere dispiegato in caso di necessità“, ha dichiarato Stoltenberg.
Intanto, nonostante la richiesta di Usa e Ue di ritirare l’insediamento dei sindaci di etnia albanese dai territori in questione è arrivata la prima sanzione per il Kosovo, che è stata espulsa dalla esercitazione militare Nato a guida Usa in Europa. Una sorta di monito affinché non si soffi sul fuoco e non si appicchi l’incendio. Per il governo Kurti, alle prese già con i problemi di natura economica interni al Paese, un altro problema da risolvere.
Il Presidente serbo Vučić invita alla calma e a non alimentare tensioni con la Nato. La questione Nato è sempre molto delicata dalle parti di Belgrado e basterebbe poco per esplodere, soprattutto in un territorio, quello del Kosovo, che i serbi considerano “cuore della Serbia”. Al momento però una situazione di stallo come questa non può far che comodo a Belgrado perché rallenterebbe qualsiasi progetto di integrazione del Kosovo con la zona euroatlantica. Oltre alla Russia, che ne avverte il potenziale della questione, anche la Cina ha chiesto che vengano salvaguardati i serbi del Kosovo, avendo intuito che la situazione potrebbe portare a gravi conseguenze. Chissà che l’Europa per una volta non si decida a perseguire il metodo “cinese” del dialogo e della cooperazione, facendo gli interessi dei popoli europei che stanno pagando le conseguenze delle scelte politiche dei propri governi, invece che “soffiare” sulla guerra come sta facendo in Ucraina dove si attinge dal “fondo per la pace” per mandare armi che stanno portando la guerra ben oltre i confini ucraini.
Dopo giorni,primo articolo sul Kosovo che mi trova in gran parte d’accordo.
Centrato il punto in pieno.
8/10
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Anche quello di Fabio Mini non era male
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Si non era male.
Mini non scrive mai a vanvera.
Ma,non vorrei sbagliarmi ,forse ricordo male, il generale mi sembra che abbia ditto in parole povere “che fosse un pretesto per la NATO a far guerra”.
Su questo non sono d’accordo.
Strategia indotta da Vlade,e non di meno di XI il cinese, per far disperdere le forze NATO sul fronte ucraino e diminuirne la concentrazione e l approvvigionamento.
Impedire diplomaticamente il sorgere del conflitto potrebbe favorire possibili spiragli in una trattativa di pace in Ucraina.
Ma siamo ancora molto lontani da ciò; la mia è poco più che una boutade.
Vedremo.
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ma che palle li dividono e basta, se non vogliono convivere li dividano, fanno zona serba e zona kosoko
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Già dal 1991
Analizzando tra di loro i vari gruppi etnici che prima conviveno in uno Stato unico. Il concetto di tolleranza, menzionatadal presidente Bush nel suo discorso ai soldati della nel Kosovo, non ha proprio spazio nella politica estera statunitense; al contrario, etnie differenti vengono messe apposta l’una contro l’altra, se questo torna utile agli interessi imperiali. Secondo Baer, arrivato con altri agenti della CIA nella capitale bosniaca Sarajevo nel 1991, «il Kosovo è stato preso di mira per due motivi. In primo luogo, per la presenza di preziose materie prime nel sottosuolo, e poi come base militare della NATO: è la più grande nel cuore dell’Europa». Baer è una fonte affidabile. Entrato nella CIA a ventiquattro anni, è uno di quegli americani che hanno girato il mondo e sanno per esperienza personale che cos’è la politica di potenza e come funziona. Dopo aver lasciato i servizi segreti nel 1997, ha cominciato a scrivere libri e tenere conferenze per far conoscere alla gente il lato occulto e ancora troppo trascurato della politica estera americana. E stato facile per gli USA smembrare la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia multietnica, perché tra le diverse popolazioni che lì vivevano esistevano già tensioni e rivalità storiche, sulle quali si potè fare leva accentuandole. Con “etnia” o “popolo“ in etnologia si intende un gruppo umano che si distingue da altri gruppi per religione, lingua, storia e cultura. Nella ex Jugoslavia le differenze tra questi gruppi sono molto marcate. In Serbia vivono so?prattutto cristiani ortodossi che parlano il serbo. Anche in Croazia vivono dei cristiani, ma sono in maggioranza cattolici e la loro lingua è il croato, sebbene riescano a intendersi facilmente con chi parla bosniaco o serbo, perché si tratta di lingue molto simili.
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Da Le guerre illegali della Nato di Daniele Ganser
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