(Lorenzo Vita – it.insideover.com) – La guerra in Ucraina è a tutti gli effetti una guerra geograficamente regionale ma dalla portata globale. I confini del conflitto non sono racchiusi al solo territorio del Paese invaso, l’Ucraina, né della Russia, ma raggiungono tutti gli angoli del mondo, fino a essersi trasformato in uno scontro tra Mosca e Occidente che lambisce, in modo sempre più incisivo, Pechino e altre cancellerie mondiali.

Dopo più di un anno di guerra, le condizioni sul campo appaiono più o meno definite. L’avanzata russa si è sostanzialmente fermata alle regioni del Donbass e a nord della Crimea, mentre la controffensiva ucraina dovrebbe essere avviata verso la tarda primavera in attesa di condizioni sul campo, meteorologiche e tecnologiche che diano vantaggi all’esercito. Ma mentre il conflitto prosegue mietendo vittime e devastando il territorio invaso, dal dibattito pubblico sembra essere scomparso un tema che teoricamente è essenziale per comprendere una guerra, la sua gestione e prevederne una fine: gli obiettivi strategici.

I dubbi dietro gli obiettivi di Kiev

La domanda può sembrare superficiale se si pensa a Kiev: naturalmente, Volodymyr Zelensky non vuole ottenere altro che la liberazione dei territori invasi e di conseguenza il ritiro delle truppe russe oltre i confini ucraini. Ma già su questo punto, molti analisti e tecnici sottolineano le difficoltà ucraine nel provare a riconquistare la Crimea e le aree del Donbass prese dai russi. E, soprattutto sulla riconquista della penisola sul Mar Nero perduta nel 2014 con l’occupazione/annessione di Mosca, le perplessità hanno travalicato anche l’Atlantico, inserendosi nel dibattito strategico Usa.

Mappa di Alberto Bellotto

Proprio la divisione interna all’amministrazione Biden non tanto sul sostegno all’Ucraina quanto sulla possibilità che esso sia impiegato per una controffensiva su vasta scala, fa riflettere anche sull’assenza, molto spesso, di un reale dibattito su quali siano gli obiettivi prefissati dagli Stati Uniti in primis ma anche dalla Nato sulla guerra. Se infatti non viene mai negato il pieno supporto politico, militare ed economico nei confronti di Kiev, sulle effettive modalità in cui la guerra dovrebbe finire e quali siano gli obiettivi strategici del blocco atlantico, i limiti diventano spesso fumosi. La liberazione della Crimea, per esempio, è un punto interrogativo non secondario, dal momento che può decidere l’intera campagna russa. Alcuni osservatori, invece, si sono domandati se la Nato abbia mai realmente espresso un obiettivo strategico al di là della certificazione del sostegno all’Ucraina, evitando in larga parte di definire in modo netto il concetto di “vittoria” da parte di Kiev.

La Nato e quei dubbi dietro la vittoria ucraina

Il sostegno incondizionato all’Ucraina (che poi incondizionato non è visto che Joe Biden stesso ha evidenziato come non si tratti di un “assegno in bianco”) è la base, infatti, di un coinvolgimento in un conflitto che dovrebbe avere anche una chiara meta e una precisa road-map. Sulla definizione di “vittoria” – e ne parlò anche il ministro degli Esteri lituano su Politico – non esiste invece una reale presa di consapevolezza. Ed è dunque lecito chiedersi se a questo punto l’Occidente voglia un congelamento del conflitto, la ritirata e sconfitta di Vladimir Putin con conseguente crollo del suo sistema di potere ma anche col rischio di una escalation nucleare, la riformulazione della stessa idea di Federazione Russa (agognata da alcuni segmenti più intransigenti Oltreoceano), o se esiste al contrario l’idea di una vittoria con riassorbimento di Mosca nel consesso internazionale.

Inoltre, come hanno sottolineato molti osservatori, rimane il dubbio del fattore temporale. Fino a quando l’Occidente, e in particolare l’Europa, è in grado di sostenere militarmente e finanziariamente l’Ucraina? Il tentativo di alcuni leader di smarcarsi dalla linea Usa guardando con interesse alla proposta cinese potrebbe apparire come un primo segnale di emergenza da parte europea. Tuttavia, diventa estremamente difficile pensare che senza un chiaro obiettivo si possano ridurre o aumentare gli aiuti alle forze di Kiev. E non è detto che le prossime tornate elettorali non diano segnali contrastanti sull’impegno tout-court dei Paesi Ue (ma non solo) a favore della resistenza ucraina. Questo dubbio che contraddistingue – tendenzialmente in modo viscerale – l’opinione pubblica di molti Stati del Vecchio Continente non è di secondaria importanza in una logica bellica.

È proprio su questo aspetto che si collega anche l’altro grande punto interrogativo di questo conflitto. Punto che appare ancora più paradossale considerato che riguarda la Russia e in particolare gli obiettivi di chi ha scatenato l’invasione di febbraio 2022. La dottrina militare russa, sin dai tempi sovietici, sottolinea come gli obiettivi strategici di una guerra siano sostanzialmente di carattere politico. Lo ha ricordato in maniera molto chiara Francesco d’Arrigo su Startmag, riflettendo sul fatto che la dottrina militare di Mosca divide la vittoria e la sconfitta in due categorie: politica e militare. La sconfitta militare può anche essere foriera di una vittoria politica, con il raggiungimento degli “obiettivi politici”. Viceversa, una vittoria militare potrebbe anche portare al mancato raggiungimento degli “obiettivi politici”.

La “guerra infinita” vista da Mosca

Il problema, a questo punto, è comprendere esattamente quali siano gli obiettivi politici di una guerra, va ricordato, per il Cremlino è ancora formalmente una “operazione militare speciale”. Termine che, in un rigido formalismo di matrice sovietica, non ha solo un significato propagandistico ma indica anche un certo tipo di raggiungimento degli obiettivi. Come ha ricordato di recente il Corriere della Sera, l’analista Maxim Trudolyubov, interpellato dal Guardian, ha fatto notare “Putin ha praticamente smesso di parlare di obiettivi concreti della guerra. Non propone alcuna visione di come potrebbe essere una futura vittoria. La guerra non ha un inizio netto né una fine prevedibile”. Motivo per cui anche altri esperti sottolineano che di fatto Putin ha già messo in atto una rivoluzione del conflitto trasformandolo in una “guerra infinita”. Termine che per i cittadini statunitensi ha un valore simbolico elevato essendo il modo in cui vengono ricordati l’Afghanistan e l’Iraq.

Il concetto di guerra “infinita” o, in particolare, di una lunga guerra di logoramento, non è estraneo alla dottrina militare russa. A questo proposito, un’analisi apparsa sul Modern War Institute ricorda come all’interno del pensiero strategico russo si confrontano da sempre due idee diverse della guerra: una che punta a una vittoria rapida e decisiva per evitare di essere invischiati nella crisi economica di una frattura con l’Occidente; l’altra linea, invece, spiega che questa concezione non va bene per avversari strutturati, mentre “l’esaurimento militare, economico, sociale e politico dell’avversario porta alla creazione di condizioni favorevoli per ottenere una vittoria strategica”. Questo implica che per Putin e la sua élite non è essenziale il modo in cui si ottiene la vittoria, diventando il tempo un fattore estremamente decisivo nel momento in questo aiuta a raggiungere i suoi obiettivi politici.

Oggi, dopo un anno di guerra, gli obiettivi russi non sono affatto quelli con cui è iniziata la guerra. Il conflitto è mutato radicalmente, al punto da non potere sostenere, a livello propagandistico, gli stessi fini di quando è iniziata la “operazione militare speciale”.

I nuovi obbiettivi politici di Mosca

Se il tempo e la guerra di logoramento sono elementi essenziali, questo implica la possibilità che gli obiettivi politici russi siano ora cambiati. Putin deve continuare questo conflitto per sopravvivere politicamente, rafforzando la propria autorità in attesa delle elezioni del prossimo anno ma soprattutto per certificare un sistema di potere radicato ormai nell’essenza stessa del conflitto con l’Ovest. Inoltre, come ricorda sempre il Modern War Institute, Putin sa che al momento la sua offensiva non può portare ai risultati dell’inizio del conflitto. L’unico suo vantaggio è che dal momento che il punto di vista russo/putiniano è che la guerra sia una necessità “difensiva” per evitare l’accerchiamento atlantico, il Cremlino cercherà di fare in modo che l’Ucraina ne esca come un Paese distrutto, in cui la guerra si rivela talmente dispendiosa e complessa che, alla fine, l’Occidente gestirà il conflitto fino a premere su Kiev per farlo terminare.

Il rischio, dunque, è che l’Ucraina a quel punto sarà certamente nell’orbita politica e militare euro-atlantica – cosa che per molti è il grande errore strategico di Putin – ma allo stesso tempo essa non sarebbe più un punto interrogativo di Mosca, ma dell’Occidente, che si troverebbe a confrontarsi con un Paese distrutto e da ricostruire senza avere effettivamente compreso gli obiettivi. Mentre per Putin, rovesciando la narrazione politica e propagandistica, potrebbe essere sufficiente l’avere “costretto” l’Occidente a trattare con la Russia, riconoscendo lo status di interlocutore.