Inflazione più alta, ma spesa pubblica e stipendi stiano fermi: “Rischio di spirale coi prezzi”. Meloni & Giorgetti restano nella scia di Draghi. Se ci fosse giustizia a questo mondo, e notoriamente non c’è, nessuno a Bruxelles o a Berlino […]

(DI MARCO PALOMBI – Il Fatto Quotidiano) – Se ci fosse giustizia a questo mondo, e notoriamente non c’è, nessuno a Bruxelles o a Berlino dovrebbe lamentarsi del duplex Giorgia Meloni-Giancarlo Giorgetti: il Documento di economia e finanza 2023 approvato ieri, il testo in cui viene tratteggiato l’andamento triennale dei conti pubblici, è in linea col debutto di inizio novembre ovvero “prudente e realistico”, come scrive il ministero, e di certo responsabile e ovviamente austero. In una parola: draghiano. L’unica concessione alla fantasia è uno spostamento di decimali nella crescita rispetto alle stime d’autunno – quattro in più quest’anno, quattro in meno nel 2024 – che genera un lusinghiero, ancorché incertissimo, +1% del Pil a fine anno. Questo, mantenendo inalterato il deficit programmatico (al 4,5%), crea pure qualche spicciolo di spazio fiscale (circa 3 miliardi) che Giorgetti promette di destinare a un taglio del cuneo fiscale da pochi euro a testa (per chi avrà il bene di beneficiarne).

Quanto al resto, nell’arco triennale del Def poco si muove rispetto a cinque mesi fa: il deficit s’abbassa per tornare al 3% nel 2025 (e al 2,5% l’anno dopo), ma si torna in surplus primario già dall’anno prossimo; il debito cala gradualmente fino al 140% del Pil nel 2025 dall’attuale 144, colpa del Superbonus – scrive il ministero – sennò scendeva molto di più (evidentemente nel pallottoliere del Mef la crescita del Pil dovuta ai bonus edilizi non influenza il livello del debito).

Il piccolo cabotaggio dell’esecutivo perpetua un atteggiamento iniziato già ai tempi di Mario Draghi: lasciare che la crisi dei prezzi seguita alla ripartenza post-Covid si scarichi naturalmente sui redditi da lavoro. E d’altronde bisogna “prevenire una pericolosa spirale prezzi-salari” grazie alla “moderazione salariale”, recita la nota del Tesoro.

La mazzata, insomma, sarà dura anche quest’anno: nel Def l’indice dei prezzi al consumo è visto crescere del 5,4% per poi scendere al 2,8% nel 2024 e al 2,1% nel 2025 (diversi punti in più di quanto prevedessero Draghi & C. un anno fa). A fronte di questa maggiore inflazione restano invariati, se non decrescenti, i principali aggregati di spesa pubblica – quella per gli stipendi della P.A. come quella sanitaria, tagliate di fatto – tanto è vero che l’effetto delle uscite pubbliche sulla crescita è stimato essere negativo sia quest’anno che il prossimo (-1,3% e -1,2%).

Bizzarro che questo dato si registri nel momento in cui il Pnrr dovrebbe esercitare i suoi maggiori effetti sulla crescita: bizzarria che fa il paio con l’apporto al Pil degli investimenti fissi lordi, che passa dal +9,4% del 2022 al +3,8% di quest’anno per scendere fino al +1,5% in tre anni, teoricamente quelli in cui maggiore sarà la spesa per investimenti finanziata dal Piano di ripresa.

La sostanza è che il bilancio pubblico è bloccato e non lascia grandi margini alla maggioranza per realizzare il suo programma economico: a meno che, certo, qualcuno non pensi davvero di finanziare i tagli alle tasse per i redditi più alti riducendo detrazioni a tutti per un pari importo o tagliando spesa in settori come pensioni o sanità (cosa teoricamente possibile, ma solo a patto di far incazzare mezzo Paese e più).

Il ministro Giorgetti, bontà sua, non ha perso il buon umore: “La prudenza di questo documento è ambizione responsabile”, ha voluto mettere a verbale, in un passaggio di fase in cui alle tradizionali “grandi sfide” s’affiancano le non meno abusate “notevoli opportunità di aprire una nuova fase di sviluppo del nostro Paese”. Giorgia Meloni, invece, butta direttamente la palla in tribuna: “Nel prossimo ddl bilancio bisogna porsi con concretezza il problema del calo demografico e delle nuove nascite, con misure adeguate”. Questo sperando che non abbia ragione il Fondo monetario internazionale (che ieri ha stimato in +0,7% il nostro Pil a fine anno), secondo cui adesso ci sono meno possibilità di “un atterraggio morbido” dell’economia globale da questa fase di crisi, in particolare per le difficoltà del settore bancario dovute al rialzo feroce dei tassi d’interesse, che ha già comportato una riduzione del credito a imprese e famiglie.