Berlusconi e Salvini la aspettavano al varco, pronti non solo a vederla inciampare, ma anche lesti a darle una spinta in caso di errori. A un anno dalle Europee, arriva il disgelo. Dai migranti al Pnrr, mappa delle partite più difficili

(di Roberto Gressi – corriere.it) – Non è un mistero che non solo una tentazione, ma anche un tentativo ci sia stato. Obiettivo: soffocare Giorgia Meloni nella culla, subito dopo le elezioni del 25 settembre e ben prima che salisse le scale del Quirinale per giurare. Perché sì, va bene, sarà pure stata furba a restarsene al calduccio dell’opposizione, niente da dire, un bel po’ di voti li ha presi, ma ora il gioco si fa serio, è roba per grandi, e “la piccola” non potrà che perdersi nei mille meandri insidiosi del Palazzo. Ad affilare le armi non sono state le opposizioni, sconfitte nelle urne e divise nelle aule, ma gli alleati. Silvio Berlusconi e Matteo Salvini la aspettavano lì, pronti non solo a vederla inciampare, ma anche lesti a darle una spinta alla prima occasione. Anche se, a dirla tutta, il leader della Lega pareva già allora più prudente, rassegnato al bisogno di limitare i danni e cogliere le opportunità, perché politicamente convinto che i rospi è meglio ingoiarli da girini. Mentre l’uomo che per quasi trent’anni è stato il capo indiscusso del centrodestra lo spodestamento non riusciva proprio a digerirlo. Mai ha lasciato lo scettro all’esercito di delfini che si sono avvicendati, nemmeno agli amati figli ha concesso più di tanto, figuriamoci poi arretrare di fonte alla ragazzina impertinente.

La notte dei brividi
Ormai sembra storia vecchia, con Forza Italia che cambia il capogruppo alla Camera e ridimensiona Licia Ronzulli, lanciando segnali di pace alla presidente del Consiglio. Ma nella notte che porta all’alba del 13 ottobre 2022, giorno dell’elezione del presidente del Senato, più di un brivido corre nella schiena delle truppe di Fratelli d’Italia. I senatori azzurri hanno scelto la prova di forza, non voteranno. Niente paura, sussurrano, Ignazio La Russa diventerà presidente lo stesso, ma alla seconda votazione, una volta arrivato forte e chiaro il segnale che la maggioranza, senza Forza Italia, non va da nessuna parte, e Giorgia Meloni, ormai anatra zoppa, dovrà piegarsi alla trattativa.

Quello che è successo subito prima è cronaca: Berlusconi è furioso per tante cose, ma soprattutto per il no a dare un ministero di peso, la Sanità, a Licia Ronzulli. Quel “niet” è la conferma, inaccettabile, che il leader indiscusso del centrodestra non è più tale. Le telecamere inquadrano un foglietto messo lì a bella posta, vergato con la calligrafia inconfondibile di Silvio e con l’intestazione Villa S. Martino, per fugare ogni dubbio. Recita: «Giorgia Meloni, un comportamento 1) supponente, 2) prepotente, 3) arrogante, 4) offensivo. Nessuna disponibilità al cambiamento, è una con cui non si può andare d’accordo». Segue un labiale che inizia con la V… rivolto a La Russa ma che lui giura non a lui riferito.

«Non gli devo nulla e non sono ricattabile»
Nelle concitate ore precedenti non era mancato chi aveva suggerito alla leader di Fratelli d’Italia di accettare una mediazione. «Giorgia, chi te lo fa fare, le cose importanti saranno altre, dalle un ministero alle pozzanghere e chiudiamola qui». Ma ora che la sfida si è fatta aperta, la premier in pectore non è più disposta nemmeno a cedere su un dicastero minore, alle pozzanghere appunto. Ha appena recapitato la sua risposta al Cavaliere: «Non gli devo nulla e non sono ricattabile». Ai suoi ha appena comunicato che preferisce andarsi a schiantare piuttosto che cedere di un millimetro. In Aula La Russa la spunta al primo tentativo: 116 voti, 17 in più del centrodestra, con Forza Italia che non vota, ad eccezione di Berlusconi e Elisabetta Casellati. Matteo Renzi fischietta, si complimenta e si attribuisce la trama. Fratelli d’Italia rivendica invece un consenso trasversale, testimone del fatto che anche loro, nel Palazzo, ci sanno stare. E a riprova riporta i giorni burrascosi che hanno preceduto la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, quando il candidato di bandiera Guido Crosetto ottenne 114 voti, 51 in più di quelli del suo partito.
Gianni Letta e il «comportamento da dilettanti»
Sia come sia, per epitaffio resta il giudizio su Forza Italia attribuito a Gianni Letta: «Un comportamento da dilettanti». E già qui, Matteo Salvini se ne è stato per conto suo. «Solidale sì, ma non insisto», si potrebbe dire derubando Trilussa e la sua parabola del gatto che abbandona al suo destino il cane pestato dal cuoco, dopo avergli prospettato un’incrollabile alleanza. Perché anche lui, Salvini, ha le sue gatte da pelare. Deve rivendicare per sé il Viminale, un po’ perché lo vorrebbe, un po’, e forse soprattutto, per non fare brutta figura con i suoi, dopo la batosta elettorale. Gli spiegano che non è possibile, che è sotto inchiesta, che si metterebbe in imbarazzo il Quirinale che non potrebbe far altro che opporsi. Gli chiedono di scegliersi un altro ministero, lui chiede le Infrastrutture e i trasporti, gli dicono di sì, lui si accontenta: ha un ponte da costruire. Il più pare fatto, screzi e piccoli sgarbi continuano, ma non così urticanti. Tanto che da Palazzo Chigi arrivano segni di disgelo verso Berlusconi. Che se cerchi di soffocarla Giorgia Meloni o ci riesci o ti azzanna. Ma se vai con il cappello in mano non ti sbatte la porta in faccia.

Via la costituzione di parte civile nel Ruby Ter
Ecco allora che la presidenza del Consiglio decide di invertire la rotta rispetto al precedente di Paolo Gentiloni e revoca la costituzione di parte civile nel processo Ruby ter. È il preludio della pacificazione. Tocca alla fidanzata di Silvio, Marta Fascina, prendere il timone. D’accordo con Marina e Piersilvio si fa ridare da Ronzulli la copia delle chiavi di Arcore e anche la presidenza del gruppo della Camera, nonché il ruolo di coordinatore della Lombardia, con la benedizione del Cavaliere che dice: «Certo la Licia mi ha fatto litigare con tutti».
«Non esiste un piano B»
Tutto risolto, si direbbe, nella maggioranza, con l’ala governista di Antonio Tajani che torna a prendere il sopravvento. Se non fosse che, per quanto importante, si tratta pur sempre dell’orto di casa. Ora, quando manca appena un anno alle elezioni europee, si apre per Giorgia Meloni la fase due, quella in cui bisogna mostrarsi credibili sulle riforme e nei confronti del continente, con gli alleati preoccupati invece soprattutto di portare a casa, nel risultato delle urne, un certificato di esistenza in vita. In gioco c’è la difficile partita del Piano nazionale di ripresa e resilienza, dove ottenere e spendere i miliardi promessi appare sempre più complicato. C’è la ratifica del Mes, con la Lega tentata dalla voglia di scartare, così come sulla partita dei Balneari. E anche la transizione ecologica rischia di finire nel tritacarne della campagna elettorale. E poi la crescita, la riforma del fisco e del mercato del lavoro, lo snellimento della burocrazia e la sfida sui diritti civili, che è pericoloso confinare nel recinto dell’ideologia. Soprattutto c’è la questione dei migranti, problema epocale, dove il governo ha scoperto che digrignare i denti non basta, non produce risultati se non quelli di sollevare dubbi sul senso di umanità del Paese.
Stop agli scivoloni putiniani
Resta poi la madre di tutte le battaglie, quella che si combatte in Ucraina. Lì sembra che gli alleati della presidente del Consiglio siano più tenuti a bada che convinti. Dopo gli scivoloni putiniani dei mesi scorsi di Silvio Berlusconi (brucia ancora l’audio rubato dove si difendeva «l’operazione speciale» della Russia contro l’arroganza criminale di Zelensky), la Lega manda avanti il suo capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, per dire no «alla dolce tirannia del pensiero dominante». Appare evidente il desiderio di sfruttare, anche in chiave elettorale, un’Italia stanca di guerra. Un fronte aperto per Giorgia Meloni, che ripete che più che le chiacchiere contano i voti sulle risoluzioni, e quelli ci sono. E ai suoi dice: «Non ci sono piani B sulla politica estera, se c’è chi vuole cambiare la linea deve cercarsi un altro presidente del Consiglio».
Ti credo che c’è disaffezione e disincanto nella politica, se questi sono gli alleati!! meglio sicuramente, un’opposizione onesta e leale che alleati simili. Osservare un comportamento del genere ti fa altro che passare la voglia di andare a votare questa classe politica, la gente che guarda questi comportamenti rimane basita a meno che non siano uguali a loro e purtroppo ce ne sono uguali a loro e parecchi anche ma non sono tutti così fortunatamente !!
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L’articolo non racconta nulla che non si sapesse già e non dice nulla su quanto si vorrebbe sapere.
Carta buona per il pesce ?
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è lì per le armi: se cambia linea è finita. Gli americani la mollano e lei torna ad essere la piccola fascista di borgata.
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