Il diritto alla salute esiste ancora per tutti? Il tavolo tra Regioni e governo è solo attivato, ma nel decreto bollette ci sono solo timidi segnali. I medici sono in fuga, le liste d’attesa sono raddoppiate e mancano gli aumenti negli stanziamenti […]

(DI NATASCIA RONCHETTI – Il Fatto Quotidiano) – È vero, con il decreto Bollette il governo ha dato un segnale per risollevare la disastrata sanità pubblica nazionale. Peccato che quel segnale per le Regioni sia ancora troppo debole. Qualche spiraglio c’è, soprattutto per i Pronto soccorso, con l’anticipazione al 1° giugno 2023 dell’indennità aggiuntiva per medici e infermieri, il riconoscimento del carattere usurante della professione anche per quanto riguarda il pensionamento e un incremento della retribuzione oraria degli straordinari (da 60 a 100 euro). Poi c’è un tetto ai compensi dei medici a gettone che, in un mercato impazzito a causa della carenza di personale ospedaliero, possono raggiungere oggi anche i 1.200-1.500 euro a turno. Così come ci sarà d’ora in poi la possibilità di utilizzare gli specializzandi, sempre in un Pronto soccorso, con incarichi liberi professionali.
“Ma manca il capitolo di un finanziamento adeguato – dice Luigi Icardi, assessore alla Salute del Piemonte – gli spazi per aumentare il fondo sanitario nazionale devono essere trovati, altrimenti non possiamo reggere”. “O si inverte la rotta o il 2023 per il servizio sanitario sarà un bagno di sangue in molte aree del Paese”, avverte Raffaele Donini, che guida la sanità in Emilia-Romagna e che è anche il coordinatore della commissione Salute della Conferenza delle Regioni.
Le regioni dai ministri
Il tavolo (solo) attivato
È trascorso quasi un mese da quando Donini, insieme al presidente della Conferenza, Massimiliano Fedriga, ha guidato una delegazione di amministratori regionali all’incontro con il ministro della Salute, Orazio Schillaci, e con il titolare del dicastero dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti. Incontro durante il quale ha squadernato il dramma senza precedenti che sta vivendo il servizio sanitario nazionale, ormai allo stremo. Il tavolo tecnico di confronto è stato sì attivato ma finora, nonostante l’emergenza, si è riunito una volta sola.
Schillaci cerca di capitalizzare i piccoli passi in avanti. “Fino a oggi – dice –, lavorare nell’emergenza-urgenza ha significato turni molto pesanti e spesso una scarsa gratificazione economica e professionale. Stiamo attuando le condizioni per rendere più attrattivo il lavoro e fare in modo che si scelga di entrare e di restare nel servizio sanitario pubblico”. Un riferimento al massiccio esodo di medici dagli ospedali.
Problema cronico
Il sottofinanziamento
Ma che il sistema sia prossimo al collasso lo dimostra il fatto che al ministero della Salute ora si comincia a parlare anche di un prossimo decreto omnibus per la sanità, per tentare di allontanarla dal precipizio. Solo che il tempo stringe davvero. E ciò che è stato fatto non basta. “Certo, il recente provvedimento del governo è apprezzabile per alcuni aspetti che riguardano i Pronto soccorso – spiega Donini –, e si parla di 1 miliardo per sterilizzare il payback sui dispositivi medici. Bene, ma per noi è a saldo zero. In realtà non c’è nessuna novità. Nessuno può dire che il fondo sanitario sia stato aumentato né che le Regioni stiano meglio di prima”. Sul tavolo – irrisolti – restano i problemi di sempre, dal sottofinanziamento del sistema alla grave carenza di medici e infermieri, con liste d’attesa infinite per accedere alle prestazioni.
Def e riduzione risorse
Verso un misero 6% del Pil
Non fa sperare il Def, che nel triennio 2023-2025 prevede una riduzione della spesa sanitaria media dell’1,13% per anno, per arrivare al 6% del Pil, addirittura al di sotto dei livelli pre-pandemia. E non c’è ancora traccia dei quasi 4 miliardi di ristoro per le spese extra sostenute per contrastare la pandemia. Così il timore è che scattino “i piani di rientro per quelle Regioni che non ce la fanno più a causa delle spese Covid che non sono state rimborsate”, dice Donini. Piani (oggi riguardano tutte le Regioni del Centro-sud, tranne la Sardegna e la Puglia) che poi si traducono in tagli ai servizi e nuove tasse per recuperare almeno un equilibrio economico-finanziario.
Spesa sanitaria pubblica
Italia 16esima in Europa
Proprio ieri la Fondazione Gimbe ha presentato il piano di rilancio della sanità, dall’aumento del finanziamento pubblico all’aggiornamento continuo dei Lea, vale a dire i Livelli essenziali di assistenza, che sono fermi da oltre sei anni, impedendo così alla popolazione di accedere alle innovazioni diagnostico-terapeutiche. Lo ha fatto fotografando il disastro. Per spesa sanitaria pubblica pro-capite l’Italia si colloca al sedicesimo posto in Europa, il gap con la media dei Paesi europei nel 2021 era già di quasi 12 miliardi. Intanto la spesa privata dei cittadini per la salute è arrivata a 36,5 miliardi (dati sempre del 2021), senza contare i 4,5 miliardi sostenuti da fondi sanitari e assicurazioni. In pratica ogni famiglia spende privatamente più di 1.700 euro all’anno, mentre il divario che separa le regioni del Settentrione da quelle del Sud si amplia.
Aspettativa di vita
Il divario Nord-Sud
Sull’adempimento dei Lea nel Centro Italia sono in regola solo Umbria e Marche, nessuna regione nel Sud. Con un impatto sulle aspettative di vita: tra gli uomini, in Trentino, arriva a 84,2 anni; in Campania e in Calabria si vive invece fino a tre anni in meno. “Un gap inaccettabile – dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe –, che dimostra come la qualità dei servizi sanitari regionali produca effetti evidenti, vanificando anche quel vantaggio che le regioni meridionali avevano conquistato nei decenni scorsi grazie a favorevoli condizioni ambientali e climatiche e alla dieta mediterranea”.
Pandemia e liste d’attesa
La rinuncia alle cure
Quanto alle liste d’attesa interminabili – e questo lo dicono i dati Istat – la quota delle persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie sempre nel 2021 è quasi raddoppiata rispetto al 2019: ha infatti raggiunto l’11,1% contro il 6,3. E anche se nel 2022 si stima un recupero, con una riduzione al 7%, le liste d’attesa restano il primo ostacolo all’accesso alle cure. Nel vuoto si espande la sanità privata accreditata, vale a dire rimborsata con il denaro pubblico. Le cliniche (quasi mille sempre nel 2021) sono quasi raddoppiate in dieci anni. Mentre gli ambulatori specialistici sono ormai più del 60% del totale.
La sanità in mano alle regioni ha iniziato a morire. Le regioni distruggono tutto quello che toccano. Il debito pubblico è cominciato a salire vertiginosamente dopo l’istituzione del titolo V della Costituzione. Le regioni, molto semplicemente, vanno abolite.
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Assolutamente d’accordo e lo dico da medico ospedaliero
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