(Marco Molendini) – Sanremo, zibaldone italiano è onnivoro. Macina Al Bano, i Maneskin, i Cugini di Campagna, i Ferragnez, Morandi, tutti in ginocchio da Amadeus, il cerimoniere. E nel piatto ci trova pure Zelensky. Era successo con Gorbaciov (che non era più un leader politico), con aspiranti suicidi, Cavallo pazzo, con Gillo Dorfles, con i cobas del latte e la Mucca Carolina, con l’arrivo del corpo di Nicola Calipari a Ciampino, etc, etc. Sanremo non fa distinzioni, tutto fa brodo e lo fa ancora di più se alza polveroni. 

Il Festival lo ha scoperto dai tempi del suicidio Tenco, ma non subito, con gli anni, perché sul momento il caso di cui si sarebbe parlato più a lungo nella sua storia, venne quasi nascosto dall’ineffabile Mike Bongiorno.

Ben vengano allora i distinguo, i si, i no, i forse, i però, i giammai, le critiche sul messaggio del leader ucraino. Fanno rumore e il rumore, più fa rumore, più riempie la pancia del Festivalone. Sappiamo già come andrà, fra una canzone l’altra, nella trepidazione (per chi vuole provarla) di sapere chi vincerà: il messaggio sotto le bombe, la platea che applaude in piedi, gratificata dal fatto di non cibarsi solo di Madame, Mengoni, Elodie,  Colla Zio, Tananai, Ultimo e via cantando, Amadeus che dirà le sue banalità da cerimoniere dell’ovvio, la mattina i complimenti dei vertici Rai per gli ascolti.

Questo è Sanremo. Inutile chiedersi quanto tutto ciò possa giovare alla causa di un paese sotto le bombe, la risposta può essere ovvia. Semmai, ammesso che Zelensky pensi di usare la gran cassa del Festival per rivolgersi altrove, ci si può fare una domanda: in Russia, dove Sanremo è stato sempre Sanremo, questo festival lo vedranno?