(DI FRANCESCOMARIA TEDESCO – ilfattoquotidiano.it) – Periodicamente veniamo sottoposti ai discorsi sui tentativi di riforma del partito riformista par excellence, il Pd. Qualsiasi cosa voglia dire ‘riformista’, naturalmente: il termine ha preso a significare un bel po’ di cose diverse, compreso il ‘riformismo’ renziano. Piero Gobetti riconosceva in Giacomo Matteotti un marxista, non ignaro di Hegel né di Sorel o di Bergson, e che se “la concezione riformista di un sindacalismo graduale non era tanto teorica quanto suggeritagli dall’esperienza di un paese servile”, dunque dalla specifica situazione italiana, Matteotti era anche l’unico socialista – preceduto solo Gaetano Salvemini nel decennio giolittiano – per il quale ‘riformismo’ non fosse sinonimo di ‘opportunismo’. Dunque già nel 1924, data fatidica in cui Gobetti verga l’epitaffio al socialista ucciso dai fascisti, aleggia l’idea che il termine celi ben più prosaiche tendenze. Da allora non si è fatto che peggiorare, fino a un riformismo come completo appiattimento sulla realtà: anzi, le ‘riforme’ sono più realiste del re.

In questo periodo risiamo al riformismo del riformismo, una specie di meta-riformismo o riformismo al quadrato o riformismo riflessivo, ovvero ai progetti di riforma del Pd. Che però ricordano tanto i cattolici del dissenso, quelli che – cresciuti dentro l’apparato e dediti all’osservanza – per quanto riformisti, pensa(va)no sempre e comunque che “extra Ecclesiam nulla salus”. Lo stesso mi pare di scorgere tra chi pensa di poter riformare il Pd, riportandolo a sinistra. Non uscirne, non dichiararlo un progetto fallimentare, ma riformarlo. Ci han provato in tanti e non escludo certo la buona fede dei più, mentre più difficile è dar credito a quelle classi immarcescibili di dirigenti locali, maggiorenti, signori dei voti che hanno preso l’elezione del leader come una lavatrice per riciclarsi. Ultima in ordine di tempo tra coloro che, animati di sani principi, hanno tentato di riformare il riformismo è quella Elly Schlein che si proponeva di ‘occupare’ il Pd ed è finita per entrarci mentre – come ha detto con la consueta salutare ferocia Michele Santoro – Franceschini le teneva aperta la porta.

Ora, per la chiesa del dissenso ci ha pensato papa Francesco, che è al contempo istituzione e riforma, laddove quest’ultima non può che essere assorbita, neutralizzata se le due parti sono per lo stesso attore. Francesco non lascia spazio se non a un dissenso non riformista ma reazionario, retrivo, perché il dissenso ‘da sinistra’ lo ha bell’e divelto attraverso una assai realistica coabitazione tra spirito profetico e scettro. Ecco, se è consentito giocare ancora con quest’analogia e mischiare santi e fanti, allora Schlein è la papessa, contemporaneamente gesuita e francescana, potere e utopia, vice di quel Bonaccini (ex?) renziano alfiere dell’autonomia differenziata e paladina del contrasto alla precarietà. Eppure non bisogna mentire agli elettori, occorre dirgli la verità: il Pd è irriformabile per una serie di ragioni, non ultimo il vincolo esterno che attanaglia Elly come Giorgia. Ma poi è irriformabile perché il renzismo non è una causa, ma un sintomo (quel sintomo che, per citare Harry, ti presento Sally, va a letto con tua moglie), e se Renzi è riuscito a espugnare il partito è perché non c’era niente da espugnare, dal momento che lì la pensa(va)no tutti come lui e le scissioni sapevano più di idiosincrasie personali che di questioni politiche (tanto che il Pd teme più l’Opa ostile di Calenda e Renzi che quella dei 5 Stelle). E di fronte a tutto questo neanche la papessa può niente.