Un dubbio. Sarebbe stato meglio se tutti i partiti contrari al centrodestra si fossero consorziati, avessero battuto la Meloni e poi avessero ripreso a litigare fra loro, data la distanza sostanziale che li separa, o è meglio ora che, perse le elezioni e fatta finalmente […]

(DI DOMENICO DE MASI – Il Fatto Quotidiano) – Un dubbio. Sarebbe stato meglio se tutti i partiti contrari al centrodestra si fossero consorziati, avessero battuto la Meloni e poi avessero ripreso a litigare fra loro, data la distanza sostanziale che li separa, o è meglio ora che, perse le elezioni e fatta finalmente chiarezza, tutte le forze di sinistra hanno davanti a sé quattro anni per costruire un partito veramente di sinistra?

Ma cosa è che rende di sinistra un partito? Lo ha ben sintetizzato Luciano Canfora in un’intervista al Manifesto del 2 agosto 2019. In un sistema neo-liberista come il nostro, basato sul mercato, sulla concorrenza, sulle disuguaglianze e sulla precarietà, veramente di sinistra, veramente rivoluzionaria è la socialdemocrazia: non quella di Saragat ma quella di Willy Brandt.

Un partito compiutamente socialdemocratico considera come punto di riferimento la parte oppressa della società; è contro i privilegi e la precarizzazione; si batte per l’uguaglianza; valorizza la forza legittima dello Stato; è ecologista, europeista, antifascista e pacifista; difende i beni comuni; utilizza come strumenti di protezione sociale il welfare, il Reddito di cittadinanza, il salario minimo, la riduzione dell’orario, la qualità del lavoro, del tempo libero e della vita. Fa tutto questo in modo radicale.

Allo stato attuale gli elettori che credono nella socialdemocrazia, o che si trovano in un disagio economico per cui farebbero bene a credere in essa, sono sparpagliati come schegge tra i non votanti e, in varia misura, tra tutti i partiti, a cominciare da quelli che Michele Serra chiama “particole settarie e insulse”. Vi è poi una fitta serie di gruppi, gruppuscoli, associazioni e fondazioni che militano a sinistra, impegnati in attività sociali e culturali, tutti in attesa di un credibile richiamo unitario che soddisfi le loro vocazioni e li aggreghi intorno a un condivisibile modello di società giusta, da costruire tutti insieme.

Nella stessa intervista del 2019 Luciano Canfora disse: “Il sociologo De Masi, un uomo simpatico e acuto ma troppo ottimista, all’indomani del voto propose l’alleanza fra Pd e M5S per fare la più grande socialdemocrazia d’Europa. Si illudeva”. A dire il vero, io ho sempre pensato che fossero necessari tempi lunghi per costruire quella particolare socialdemocrazia. E, non a caso, dopo tre anni siamo qui a riparlarne.

Ora sappiamo che tutte le schegge di sinistra, ovunque esse siano, marcano un deficit di adeguata cultura politica causato dalla scollatura tra gli intellettuali e i partiti per cui nessuna di esse dispone di un modello di società postindustriale in chiave decisamente socialdemocratica.

Ora sono in campo le cupe macerazioni interne del Pd e le rinate speranze dei 5 Stelle. Il Pd, privo di un leader, fa i conti con la sua schizofrenia per cui si sente ancora vagamente erede di Berlinguer, ma sa bene di comportarsi come un partito di centro fino al punto da abolire l’articolo 18 e concepire il jobs act. Non a caso Letta ha sempre evitato, con cauto pudore, parole e concetti come “proletariato”, “lotta di classe” e “rivoluzione”, che invece Berlinguer pronunziava con orgogliosa consapevolezza.

L’analisi del voto certifica che i consensi raccolti dal Pd provengono soprattutto da residenti nei centri urbani, da benestanti e istruiti, da anziani e pensionati. Dunque si tratta di un partito della borghesia anche se si ostina a proclamarsi di sinistra e anche se non c’è nulla di male a essere moderati. La sua attuale esperienza è maturata nei palazzi più che nelle tribù e la sua vocazione è consociativa, per cui tende a diluire i conflitti nel compromesso e indulge a una politica economica ampiamente debitrice verso il pensiero neoliberista. C’è da chiedersi se l’accanimento terapeutico per riportarlo a sinistra non sia come voler rimettere il dentifricio nel tubetto.

Invece i 5 Stelle esultano non tanto per le percentuali dei consensi ottenuti quanto per il tonificante effetto psicologico creato dalla campagna elettorale. Dopo mesi di confusione organizzativa, finalmente si è ben definita la leadership di Conte e si è rivelato vincente l’aggancio preferenziale al precariato: proletari e sottoproletari, residenti nelle periferie urbane, giovani, poveri e con istruzione medio-bassa. Inoltre, le recenti radici movimentiste dei 5 Stelle li rendono più radicali e più adatti del Pd a giocare in opposizione, come sarà necessario nei prossimi anni.

Dunque il Pd si dice di sinistra senza esserlo e il Movimento 5 Stelle è di sinistra senza dirlo. Ma non lo dice perché gliene manca la consapevolezza e, prima di tutto, la cultura. Se saprà darsela, potrà ambire a diventare il punto di riferimento per tutte le schegge socialdemocratiche; in caso contrario, rappresenterà un ennesimo contributo all’affossamento della socialdemocrazia.