(Pierfranco Pellizzetti – ilfattoquotidiano.it) – Agli inizi del ’900 i pittori post-impressionisti teorizzavano la pratica del “non finito”, sulla scia di Paul Cezanne che nel 1907 aveva esposto al Salon d’Automne una serie di quadri deliberatamente incompiuti. In sintonia con il movimento cosiddetto “dei Nabis” (Pierre Bonnard, Paul Sérusier, Felix Vallotton, tra gli altri).

Se la politica italiana fosse una corrente pittorica, Alessandro Di Battista potrebbe essere giustamente considerato a pieno titolo esponente dei Nabis. Proprio perché rivela una particolare attitudine a non portare a compimento niente di quello che fa.

Indubbiamente simpatico, onesto, grande affabulatore e non disprezzabile ragionatore, efficace nel terreno irto di trappole del talk show, l’ex golden boy degli ex Cinquestelle avrebbe rappresentato una risorsa decisiva – anche come garanzia di credibilità – per chi tenta di valorizzare il lascito del Movimento pentastellato quale piattaforma su cui far crescere un’offerta politica oggi del tutto assente: un soggetto definibile populista/ambientalista, che contrasti il degrado etico di questo ceto politico indecente e – al tempo stesso – inserisca nell’agenda pubblica i temi che la congrega degli incantatori non vuole neppure sentir pronunciare (le nuove povertà, le disuguaglianze, il saccheggio sistematico dei beni pubblici, l’attacco sistematico al lavoro. Per dirla con il sociologo Wolfgang Streeck, “il divorzio tra la democrazia e il capitalismo”). Il mercimonio annunciato dei principi costituzionali.

Infatti il momento che viviamo e l’appuntamento verso cui ci incamminiamo richiederebbero l’impegno appassionato di ogni persona di buona volontà. Soprattutto di chi dichiara di voler valorizzare la propria vicenda politica, evitandole di finire al macero, e non si nasconde che l’attuale leader (sotto tutela) del M5S nutre l’identica aspirazione. Anche se difetta di quella irrinunciabile risolutezza che – invece – Di Battista potrebbe apportare con efficacia. Non solo per salvare un’esperienza personale, ma anche per provare a evitare che le stesse condizioni di vivibilità civile italiane vadano a ramengo.

Ma che fa il Nostro? Come si dice dalle mie parti, è uno che se gli metti un piatto in mano te lo lascia cadere. O meglio, alla Max Weber: è talmente attento all’etica dei valori con cui sembra voler piastrellare il proprio mito che si ritrae da qualsivoglia forma di responsabilità (l’altra etica) che impone di affondare i piedi nel fango dei tempi e di una società degradata. Dunque, fare i conti con il ruolo pestifero che l’ormai smascherato Beppe Grillo continua a svolgere al servizio della propria ansia di protagonismo distruttivo. E difatti Di Battista dichiara di non voler tornare nell’agone per non sottostare ai capricci del Garante-ricattatore. Pur sapendo che Giuseppe Conte da solo non ce la fa a divincolarsi dai tentacoli del despota di Sant’Ilario. Quel Conte cui Di Battista riconosce le doti rare della serietà e dell’onestà. Particolarmente apprezzabili a fronte del loro contrario, che il Nostro denuncia impersonandolo nel suo ex fratellino: il Di Maio incarnazione al peggio dell’imbarazzante revival del doroteismo partenopeo, dai Gava a Pomicino.

Mentre la crescente deriva al falso del nostro sistema politico individua l’unico ostacolo alla sua instaurazione nella pattuglia contiana, criminalizzata per un fatto che non ha compiuto: l’attuale crisi di governo. Il suicidio assistito del banchiere premier, non solo algido ma anche malmostoso, che pure aveva ottenuto il 70% dei voti a favore.

Per non parlare di un dibattito pubblico incentrato su alternative diversive: atlantismo contro putinismo, fascismo-antifascismo, flat tax al 24% oppure al 15%. Per non citare l’atto di fede o meno nei confronti del testo sacro denominato “Agenda Draghi”; di cui resta ignoto quali recondite verità contenga. Perché – direbbe il poeta – “che ci sia ciascun lo dice/ dove sia nessun lo sa”.

Quindi, visto che la politica italiana non è una corrente pittorica, la pratica del “non finito” è soltanto un abbandono del campo di battaglia: salvarsi l’anima, se non la pelle.

Ci fosse qui Braveheart William Wallace, a un ragazzo figlio del pop quale Di Battista indirizzerebbe il suo celebre monito: “Chi combatte può morire, chi fugge resta vivo. Agonizzanti in un letto fra molti anni siete sicuri che non sognerete di barattare tutti i giorni che avrete vissuto per avere l’occasione, solo un’altra occasione, di tornare qui sul campo a urlare ai nostri nemici che non ci toglieranno la libertà?”.