Nei due anni infernali della pandemia abbiamo deciso che la vita era il valore primario (e ci mancherebbe). La vita di tutti: degli anziani, dei fragili in primis, la vita di ciascun singolo individuo. […]

(SILVIA TRUZZI – Il Fatto Quotidiano) – Nei due anni infernali della pandemia abbiamo deciso che la vita era il valore primario (e ci mancherebbe). La vita di tutti: degli anziani, dei fragili in primis, la vita di ciascun singolo individuo. E per due anni abbiamo stravolto completamente le nostre vite in nome della vita, accettando questo assunto come un assoluto. In un primo momento siamo stati travolti dalla violenza del virus, poi abbiamo cominciato a piccoli passi a “convivere” con il virus. I vaccini ci hanno aiutato a riconquistare un po’ di tutto quello che abbiamo sacrificato nel lungo inverno chiamato Covid: la vita sociale, la possibilità di circolare liberamente, di andare all’asilo, a scuola e all’Università, di accedere a cure mediche, di andare al lavoro. Le nostre libertà sono ancora sotto condizione: senza il super green pass non si può fare quasi nulla, anche ora che la pandemia sta allentando la sua morsa. Va ricordato – nel Paese campione intergalattico di autorazzismo – che gli italiani sono stati bravissimi: non solo perché siamo uno dei popoli più vaccinati del pianeta, ma perché abbiamo accettato senza sostanziali resistenze i molti sacrifici che ci sono stati chiesti. E se solo si provava a dire che le limitazioni delle libertà costituzionali erano accettabili per periodi brevissimi perché costituivano (anche) un pericoloso precedente si veniva immediatamente additati come irresponsabili, no vax, se non untori di manzoniana memoria. Quante volte abbiamo letto e sentito usare la metafora della guerra nella lotta al virus… Poi però la guerra è arrivata davvero, non molto lontano dalle nostre case e il Covid – insieme a tutte le parole urlate che lo accompagnavano – è scomparso, letteralmente, dalle pagine dei giornali e dai talk show. Sono rimaste solo le urla.
“Questa guerra non è solo contro gli ucraini, ma contro i valori che ci uniscono, contro il nostro modo di vivere in Occidente”, ha detto il presidente ucraino Zelensky. Le parole del patriarca di Mosca gli hanno fatto una sinistra eco (“Questa guerra è contro chi sostiene i gay”). Ma, al di là delle uscite medievali, vale la pena interrogarsi sui “nostri valori”. La pace era uno di questi. Oggi, mentre guardiamo le foto dei civili in fuga, delle madri morte e dei bambini mutilati, non abbiamo dubbi sul fatto che di nuovo è la vita il valore da tenere presente. Ed è per questo che quel che resta del movimento pacifista, domenica a Roma la manifestazione, vede con sfavore l’invio delle armi in Ucraina e l’aumento delle spese militari, votato ieri in Parlamento. Perché le armi servono per uccidere e l’Italia ripudia la guerra, come spiega senza equivoci la nostra Carta, scritta da quelli che la guerra l’avevano fatta in montagna (e non in uno chalet). Ma, di nuovo, appena si prova ad argomentare una posizione dissonante con l’interventismo (e che evoca scenari ogni giorno più apocalittici, alimentando l’ansia dei cittadini) si è immediatamente filoputiniani, nostalgici dell’Urss e anti-americani: prima il nemico pubblico erano Cacciari e Agamben, ora sono Canfora, Spinelli e Orsini. Non è chiaro cosa c’entri l’antiamericanismo con la attuale situazione, ma anche volendo accettare il continuo slittamento della discussione (il caro vecchio buttare la palla fuori dal campo) è un’eresia dire che uno stato dove si curano solo i ricchi, il lavoro non ha tutele, c’è il diritto alla felicità ma nessuna forma di solidarietà sociale, studiano i figli dei ricchi, il welfare è privato e il mito nazionale è la ricchezza individuale, è un modello quantomeno rivedibile? Ora, comunque, il valore supremo – ci dicono – non è più la vita, ma la libertà. Non è chiaro perché il dibattito pubblico abbia assunto toni sempre più violenti, ma la guerra di parole svilisce le sofferenze di un popolo che la guerra vera la sta subendo.