Entriamo in guerra ma non si deve dire. Nella replica alla Camera, le implicazioni e il senso dell’intervento di Mario Draghi diventano chiarissime. Su più piani. Se da una parte la guerra è un’evidenza, dall’altra il premier in qualche modo ammette che un ruolo in questa crisi fino ad ora non l’ha giocato […]

(WANDA MARRA – Il Fatto Quotidiano) – “Non è vero che ci siamo rassegnati nel perseguire la pace. Vi ringrazio molto per il ruolo che alcuni di voi mi vogliono attribuire. Non credo che occorra cercare un ruolo, occorre cercare la pace e su questo potete contare che lo farò”. Nella replica alla Camera, le implicazioni e il senso dell’intervento di Mario Draghi diventano chiarissime. Su più piani. Se da una parte la guerra è un’evidenza, dall’altra il premier in qualche modo ammette che un ruolo in questa crisi fino ad ora non l’ha giocato. “Per cercare la pace si deve volere la pace, e chi ha più di 60 chilometri di carri armati e altri blindati alle porte di Kiev non vuole la pace in questo momento”, scandisce Draghi.

Davanti a un Parlamento vagamente schizofrenico, che da una parte lo applaude in continuazione e tributa ovazioni a Volodymyr Zelensky e al popolo ucraino, dall’altra lo attacca, sia negli interventi in Aula, sia nelle conversazioni in privato, Draghi si presenta per chiedere il voto su una risoluzione unitaria. Un sì all’invio di armi, prima di tutto, un sì al all’uso del carbone. Un sì a una politica dell’accoglienza molto più decisa. E un sì a una cessione di sovranità nei confronti dell’Unione europea. Ma l’intervento del premier ha anche l’obiettivo di avvertire che ci saranno conseguenze sulle vite di tutti. Perché con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia finisce l’illusione “che potessimo dare per scontate le conquiste di pace, sicurezza”. L’Italia “farà la sua parte” avverte il premier. “Forse Putin ci vedeva impotenti, divisi, inebriati dalla nostra ricchezza. Si è sbagliato, siamo stati e saremo pronti a reagire, a ribattere, per difendere i nostri valori”, dice vivacemente, ancora nella replica.

Si è preparato a lungo e con cura il premier. Dopo giornate caratterizzate da interventi poco incisivi e poca chiarezza nelle comunicazioni, Draghi doveva dare un’impressione di sicurezza e fermezza. Prima di tutto, nell’attribuire le responsabilità: “L’aggressione – premeditata e immotivata – della Russia verso un Paese vicino ci riporta indietro di oltre ottant’anni, all’annessione dell’Austria, all’occupazione della Cecoslovacchia e all’invasione della Polonia”. Il parallelo con il nazismo è esplicito. Mentre “il ricatto estremo del ricorso alle armi nucleari, ci impone una reazione rapida, ferma, unitaria”. E se ammette le difficoltà dell’Italia in caso di interruzioni nelle forniture di gas dalla Russia, Draghi assicura che il nostro paese ha ancora 2,5 miliardi di metri cubi di gas negli stoccaggi. C’è anche una pars construens nel suo intervento: il percorso verso la Difesa comune Ue, il lavoro in corso sulle nuove regole di bilancio in Europa, una politica nella gestione dei migranti fatta di condivisione della responsabilità (non a caso ringrazia Polonia e Ungheria per il lavoro che stanno facendo: un modo anche per inchiodarli). E poi annuncia: “Ho proposto di prendere ulteriori misure mirate contro gli oligarchi. L’ipotesi è quella di creare un registro internazionale pubblico di quelli con un patrimonio superiore ai 10 milioni di euro. Ho poi proposto di intensificare ulteriormente la pressione sulla Banca centrale russa e di chiedere alla Banca dei Regolamenti Internazionali, che ha sede in Svizzera, di partecipare alle sanzioni”.

Qualche difficoltà diplomatica si evince nella ricostruzione del mancato collegamento con l’Eliseo di martedì sera. “Sono stato invitato dal presidente Macron nel pomeriggio”, dice.

Eppure, l’impegno era nel comunicato di Palazzo Chigi della mattina. Attribuisce il mancato collegamento a problemi di connessione. Ma non risparmia una critica velata a Macron: nei tentativi di parlare con Putin “le sue dichiarazioni sono smentite da fonte russa”.

Il Parlamento alla fine gli dà l’unità che chiede: 224 sì al Senato, dai 459 ai 521 sì alla Camera, alle 12 mozioni in cui è stato frazionata la risoluzione.