Con una recente sentenza del giudice Giacomo Oberto (n. 186/2022), il Tribunale di Torino ha stabilito che in questi casi non si commette il reato di diffamazione. A suo parere, le recensioni negative pubblicate sui social […]

(di Giovanni Valentini – Il Fatto Quotidiano) – “La democrazia deve essere il regime della verità, nel senso della piena possibilità della conoscenza dei fatti da parte di tutti” (da Il diritto di avere diritti di Stefano Rodotà Laterza, 2012 – pag. 224)

Avete mangiato male o pagato troppo in un ristorante? Vi hanno servito il caffè o il cappuccino in una tazza sporca? Non siete stati accolti bene in albergo e vi hanno assegnato una stanza di categoria inferiore a quella prenotata? Insomma, siete insoddisfatti delle prestazioni ricevute da un esercizio commerciale e volete comunicarlo coram populo? Potete dirlo liberamente anche ai vostri follower su un social network, a condizione di non insultare e offendere nessuno.

Con una recente sentenza del giudice Giacomo Oberto (n. 186/2022), il Tribunale di Torino ha stabilito che in questi casi non si commette il reato di diffamazione. A suo parere, le recensioni negative pubblicate sui social svolgono “una fondamentale funzione economica, perché evitano pubblicità ingannevoli e danni ad altri clienti”. Se le critiche vengono espresse con un linguaggio corretto e non offensivo, sono un’“opera sicuramente meritoria”. E, aggiungiamo noi, possono funzionare da deterrente, prevenendo “pratiche commerciali scorrette” come dice la normativa antitrust.

La causa in questione è stata promossa da una richiesta di risarcimento danni di 150mila euro, presentata da una concessionaria di auto e moto che aveva citato in giudizio l’amministratore di una pagina Facebook e la relativa community, dedicate alla compravendita di veicoli usati. In un post divenuto virale, un cliente aveva raccontato di essersi accorto dopo l’acquisto che l’auto era sinistrata e di aver inviato diverse email di reclamo al venditore senza ottenere alcun risultato. L’amplificazione della rete aveva prodotto cinquecento condivisioni e più di mille like. Una sorta di “gogna mediatica”, dunque, da cui la concessionaria s’era ritenuta danneggiata nella sua immagine e nella sua reputazione.

Non si tratta di una sentenza “sovversiva”. Ma, come si suol dire, è destinata a fare giurisprudenza. E può contribuire a tutelare meglio i diritti dei consumatori nei confronti degli esercizi commerciali, segnando una svolta nella vita quotidiana dei cittadini. Tanto più se fosse regolarmente applicata anche ai servizi pubblici o a quelli in concessione: dalla sanità alle poste, dai trasporti alle telecomunicazioni. Diventerebbe una “bacheca elettronica” su cui scrivere quello che spesso non funziona o funziona male (e magari quello che talvolta funziona).

Il diritto d’opinione e di critica, sancito dal fondamentale articolo 21 della Costituzione, vale insomma anche per i social network. Quella norma della Carta scritta con preveggenza settant’anni fa garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero, oltre che con la parola o con lo scritto, con “ogni altro mezzo di diffusione”. E quindi, Internet compreso.

Quali sono allora i limiti per non incorrere nel reato di diffamazione online? Non possono che essere gli stessi che valgono offline, per la carta stampata, la radio o la tv. Vale a dire l’interesse pubblico della notizia, la cosiddetta “verità putativa” e la continenza del linguaggio. È chiaro che, se qualcuno diffonde attraverso un post un’informazione privata, falsa oppure offensiva, commette il medesimo reato dell’incauto giornalista che la pubblica sulle pagine della propria testata.

Lo stesso giudice di Torino, accogliendo la richiesta di archiviazione del gip, ha ribadito che l’utilizzo di espressioni ironiche e goliardiche è tollerato se si rappresentano fatti realmente accaduti e senza trascendere nell’invettiva. La verità non sempre trionfa. Ma, per citare un’espressione gramsciana, è comunque “rivoluzionaria”.