Una o due, questo è il primo dilemma. Al quinto giorno di votazioni a vuoto, il Parlamento comincia ad avvertire un fastidioso ticchettio. C’è bisogno di accelerare, di smuovere le acque, ché lo stallo non è solo brutto da vedere, ma è pure pericoloso, non sia mai si scivoli verso finali senza sceneggiatura.

(DI PAOLA ZANCA – Il Fatto Quotidiano) – Una o due, questo è il primo dilemma. Al quinto giorno di votazioni a vuoto, il Parlamento comincia ad avvertire un fastidioso ticchettio. C’è bisogno di accelerare, di smuovere le acque, ché lo stallo non è solo brutto da vedere, ma è pure pericoloso, non sia mai si scivoli verso finali senza sceneggiatura. Così stamattina, la conferenza dei capigruppo valuterà se procedere con due votazioni al giorno, come si è sempre fatto, prima che il Covid dilatasse i tempi elettorali a causa di distanziamenti e sanificazioni. Anche perché la storia repubblicana insegna che alla quinta chiama – quella convocata alle 11 di oggi – non si è mai eletto nessuno. Meglio passare rapidamente alla sesta, sempre che i leader riescano a mettersi d’accordo e non lascino mani libere alle spinte che vengono “dal basso”.
Ieri, per legare quelle mani, il centrodestra ha imposto ai suoi di non ritirare la scheda. Risultato: 441 astenuti, lontani dai 505 voti che servono per eleggere il capo dello Stato, anche considerando i 12 che hanno disobbedito all’ordine. Giorgia Meloni non ha gradito, avrebbe preferito andare alla conta su un nome. Ma Salvini le ha spiegato che nessuno – a cominciare dalla decapitata Forza Italia – poteva garantire di fermare i segnali incontrollati. Come quelli arrivati dall’altra metà dell’emiciclo che ieri ha tributato 166 voti a Sergio Mattarella.
Un parlamentare su tre dei 540 votanti ha chiesto al capo dello Stato di fare il bis. Un appello trasversale, probabilmente più scarno del previsto perché il Pd (e i 5S, costretti poi a dire che si era lasciata “libertà di coscienza”) hanno messo i caporioni a conteggiare i secondi di permanenza nel catafalco per obbligare tutti alla scheda bianca: ci sono gli eletti di Leu, un pezzo di 5 Stelle (un nutrito gruppo di senatori sostiene questa tesi da tempo), alcuni seguaci di Luigi Di Maio, esponenti dem vicini a Dario Franceschini. Il sogno del mantenimento dello status quo (Draghi a palazzo Chigi, Mattarella al Quirinale) è quello che consentirebbe di blindare la legislatura per un altro anno, la soluzione indolore, il freezer della politica. Ma è chiaro che sarebbe anche un segnale di estrema debolezza – oltreché dai profili costituzionali labilissimi – a cui arrivare solo per conclamata disperazione. Anche perché, dal Colle lo hanno chiarito più volte, per convincere Mattarella a restare servirebbe un’acclamazione del Parlamento intero (al massimo si tollererebbe l’astensione di Giorgia Meloni) e soprattutto dovrebbe arrivare dopo una processione dei leader al Quirinale.
Già, i leader. Per quanto allo sbando, sono tutti in balia della Lega e del suo capo. Quel Matteo Salvini che non si capisce a che gioco stia giocando. Sibilano i leghisti in Transatlantico: “Siamo anche disposti a votare Draghi, se ci promette che scioglie le Camere e ci fa andare a votare”. Qualcun altro, quando si è fatta sera, ritira fuori l’ipotesi di un blitz su Maria Elisabetta Alberti Casellati. I numeri per fare da solo – lo hanno certificato le astensioni di ieri – il centrodestra non li ha, ma la speranza è sempre quella di pescare nel magma del gruppo misto. Ovviamente, anche questa soluzione sarebbe finalizzata alle elezioni anticipate. Poi è Matteo Salvini ad azzardare un’altra mossa che dà l’idea di quanto si proceda a tentoni, rimettendo sul tavolo il nome di Franco Frattini – già bocciato dai giallorosa – e preparando una nuova rosa di candidati, tra i quali c’è anche Giampiero Massolo (già bocciato da Forza Italia). Il suo nome circolò già ai tempi della formazione del governo gialloverde, come punto di intesa tra Salvini e Di Maio, prima che spuntasse dal nulla l’avvocato Giuseppe Conte. Curiosamente Massolo è un diplomatico come Elisabetta Belloni. Doppiamente curioso il fatto che lui sia stato a capo Dipartimento delle informazioni per la sicurezza tra il 2012 e il 2016, lo stesso incarico di coordinamento dei servizi segreti che da pochi mesi ricopre la stessa Belloni e che – nelle valutazioni delle ultime ore – costituiva il principale ostacolo alla sua candidatura al Quirinale.
Una matassa apocalittica che Mario Draghi spera ancora di venire chiamato a sbrogliare. Sempre che – lo avvertono – riesca a prendere 505 voti.