(Milena Gabanelli, Daniele Manca e Francesco Tortora – corriere.it) – Poco più di 20 anni fa Telecom era il sesto operatore al mondo, oggi è diciassettesima. E non è colpa del mercato. Allora come ha fatto a ridursi così? Partiamo dall’inizio.

La madre di tutte le privatizzazioni
Telecom nasce nel 1994 dalla fusione di Iritel, Telespazio, Italcable e SIRM, società del gruppo pubblico STET che già opera nel settore delle telecomunicazioni. Nel 1995 lancia Tim, il primo operatore italiano dedicato esclusivamente alla telefonia mobile. Nel 1997 è la quarta impresa in Italia per fatturato: l’equivalente di 23,2 miliardi di euro, e una elevata redditività. Non ha debiti netti, conta una trentina di partecipazioni internazionali, un patrimonio immobiliare pari a oltre 10 miliardi di euro e 120.345 dipendenti.

Nello stesso anno il governo Prodi con Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, per mettere a posto i conti e raggiungere così l’obiettivo dell’entrata nell’euro, decide di privatizzare il meglio che c’è. Telecom va sul mercato con la più ampia offerta di titoli fatta da un governo italiano: viene superato il milione di richieste. Le azioni sono collocate a 10.902 lire (5,6 euro) e dalla vendita del 35,26% del capitale si ricavano 26 mila miliardi di lire (circa 14 miliardi di euro). Il gruppo di riferimento tanto corteggiato dal governo è guidato dal gruppo Fiat, che acquista appena il 6,6% delle azioni, e attraverso l’Ifil la famiglia Agnelli con solo lo 0,6% assume il comando. L’azionariato oltre ad essere poco solido è anche litigioso.
I capitani coraggiosi
Nel 1999 una cordata di imprenditori guidata da Roberto Colaninno, numero uno di Olivetti, lancia un’offerta pubblica d’acquisto tramite la controllata Tecnost. L’operazione da 102 mila miliardi di lire (circa 50 miliardi di euro) sulla totalità delle azioni di Telecom Italia è quasi tutta a debito, garantito da Comit, Cariplo, Monte dei Paschi, Bnl, Banca di Roma, Commerzbank, Bank of America, Mediobanca, Chase Manhattan, Lehman Brothers. Olivetti ci mette 10 miliardi di euro, ricavati dalla vendita di Omnitel e Infostrada. Tra i costi della storia di Telecom bisogna mettere in conto anche il passaggio di controllo all’estero proprio di Omnitel, da cui nascerà il colosso mondiale delle tlc Vodafone.
Una piramide di società
Tecnicamente l’offerta pubblica è lanciata da Tecnost, società quotata controllata da Olivetti, che rileva il 52,12% di Telecom Italia. Ad indebitarsi è quindi la Olivetti attraverso la controllata Tecnost. Olivetti a sua volta è controllata dalla finanziaria lussemburghese Bell, in cui Roberto Colaninno e il manager bresciano Emilio Gnutti hanno fatto confluire un gruppo di 150 investitori (per la maggior parte schermati da società offshore). Sopra la Bell ci sono la Fingruppo di Colaninno e la Hopa di Emilio Gnutti. Un sistema a piramide che permette il controllo di Telecom con appena l’1,5% del capitale. Ad appoggiare la scalata è il governo guidato allora da Massimo D’Alema, che boccia le azioni di difesa studiate da Telecom Italia (la fusione con Deutsche Telekom, oggi terzo gruppo al mondo), non esercita il diritto di veto (golden share), impedendo con ordine scritto a Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, di valutare opzioni più favorevoli per gli azionisti, e battezza come «capitani coraggiosi» gli imprenditori della cordata. Nessun Paese ha mai accettato un’opa ostile nei confronti di una società strategica, ma tant’è.
I capitani incassano e lasciano il debito
Il problema dei nuovi soci è trovare il modo di far affluire i ricchi profitti di Telecom lungo la cascata di società e tamponare i debiti. L’intenzione di Colaninno è quella di fondere Tecnost e Telecom (leveraged buyout), ma il Codice civile italiano vieta la fusione fra la società veicolo che si indebita al fine di acquisire la società madre e ripagare con la cassa generata da quest’ultima. Tenta allora di trasferire il controllo di Tim a Tecnost, un’operazione che avrebbe penalizzato gli azionisti di minoranza e definita dal Financial Times «una rapina in pieno giorno», infatti la sola indiscrezione provoca un’ondata di vendite. Un piano industriale non c’è, e nel 2001 Colaninno e soci vendono tutto il pacchetto portandosi a casa una plusvalenza di 1,5 miliardi di euro e la Imsi, la società del gruppo con dentro gli immobili di pregio. A Telecom e alle società collegate restano i 43 miliardi di debito da cui la compagnia non riuscirà più a sollevarsi.

Arriva Tronchetti Provera
A comprare è Pirelli, di cui è amministratore delegato Marco Tronchetti Provera, attraverso la Olimpia, una società che sta sotto Pirelli, e con dentro la famiglia Benetton e altri investitori italiani. Olimpia è controllata dal Gruppo Partecipazioni Industriali (GPI), con Tronchetti Provera primo azionista. Anche lui compra quasi tutto a debito: con 7,2 miliardi di euro Olimpia si prende il 27% delle azioni Olivetti e il comando di Telecom. I soldi sborsati da Tronchetti Provera di tasca sua equivalgono a meno dell’1% del capitale Telecom. Nel 2003 cambia il diritto societario: il meccanismo del leveraged buyout diventa legittimo e la fusione tra Olivetti e Telecom stavolta si può fare. Questo rende possibile il trasferimento dei ricchi flussi di cassa lungo la catena di controllo, ma scarica definitivamente i debiti sull’azienda di telecomunicazioni.
I debiti crescono ancora
La stagione Pirelli è quella che dura di più. Il presidente Tronchetti Provera punta allo sviluppo di Internet attraverso la banda larga (si passa da 390 mila linee a 6,7 milioni nel 2006), tratta una partnership con la News Corp di Murdoch per la produzione di contenuti, avvia accordi con la spagnola Telefónica per allargare il mercato. Per abbattere il debito vende gli immobili che restano, partecipazioni internazionali per 16,4 miliardi di euro e svaluta attività per circa 11,8 miliardi di euro. I dividendi sono molto generosi con i soci. In 6 anni il fatturato resta costante attorno ai 30 miliardi l’anno, l’utile netto a 3 miliardi, e agli investimenti viene destinato il 17,5% del fatturato. Poi nel 2005 un’operazione rischiosa: Telecom acquista Tim, e il debito della società riesplode a 46,9 miliardi. Nel 2006, secondo governo Prodi, Rovati, consigliere di Palazzo Chigi, fa circolare un piano di scorporo della rete. La politica torna ad occuparsi di Telecom. La società è impiombata, il titolo in caduta libera.

Da Telco a Telefónica a Vivendi
Nel 2007, con il titolo in caduta, Olimpia vende tutte le sue quote a Telco (l’operazione completa costa 4,1 miliardi di euro), consorzio formato da Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Generali, che sceglie come partner industriale la spagnola Telefónica. Telco, con il 22,8% delle azioni ora controlla Telecom, su cui pesano 35,7 miliardi di debito. La collaborazione con Telefónica è difficile, e a giugno 2014 gli investitori istituzionali cedono le loro quote a Telefónica. Dunque l’operatore spagnolo, con solo il 15% delle azioni comanda Telecom. Ma dura poco. Più interessato agli asset sudamericani di Telecom e per nulla al rilancio della compagnia, nel 2015 Telefónica scambia parte delle sue quote con la francese Vivendi di Vincent Bolloré. In dieci anni tutti i processi di montaggio, smontaggio e rimontaggio della società arricchiscono schiere di consulenti: il costo per l’azienda è di 4,75 miliardi.

Cambiano 4 ad in sei anni
Nei sei anni che seguono Telecom cambia nome in «Tim Spa», Vivendi diventa il primo azionista con il 23,75%, e si alternano 4 amministratori delegati: Marco Patuano, Flavio Cattaneo, Amos Genish, Luigi Gubitosi. In buonuscite Telecom Italia sborsa 33 milioni, di cui 25 a Flavio Cattaneo per un solo anno di incarico.

Rientra lo Stato attraverso Cassa Depositi e Prestiti, che diventa il secondo azionista con il 9,81%. Cdp sarebbe in conflitto d’interesse perché ha anche partecipazioni in Open Fiber, concorrente di Telecom sullo sviluppo della rete in fibra. Con il Conte 1 entra anche il fondo Elliott, un hedge fund squalo non interessato allo sviluppo delle aziende in cui investe, ma a realizzare plusvalenze e vendere, tuttavia gli viene consentito di nominare il consiglio d’amministrazione. Sta di fatto che il debito azzoppa la società e gli investimenti sulla fibra non vanno avanti. A fine 2020 il fatturato scende a 15,8 miliardi, gli utili si attestano a 1,3 miliardi di euro, il debito resta fermo a 23,3 miliardi. A ottobre 2021 il titolo precipita al minimo storico: 0,28 euro.

Entra in scena il fondo americano KKR
L’ultimo scontro per il controllo dell’azienda è tra il fondo americano KKR e la francese Vivendi. La procedura è inusuale: a fine novembre KKR invia una lettera a Tim nella quale manifesta l’interesse all’acquisto per circa 11 miliardi di euro, e indica il valore delle azioni a 0,50 euro. La lettera viene diffusa, e in Borsa il titolo raddoppia, ma l’offerta nella quale si indica in modo giuridicamente vincolante un prezzo, e da dove arrivano le risorse per l’acquisto, non è stata depositata alla Consob, come prevede il testo unico della finanza. Però l’Autorità di vigilanza non mette il Fondo alle corde. É legittimo pensare che qualcuno abbia fatto insider trading.
Una preda facile
Telecom è senza dubbio il più grande equivoco della storia industriale italiana degli ultimi 25 anni. Lanciata come «la madre di tutte le privatizzazioni»,la società di telefonia non solo non è mai riuscita ad affrancarsi dal potere politico che spesso ne ha determinato le sorti senza tutelare l’interesse pubblico, ma sulla sua strada ha trovato imprenditori rapaci che l’hanno uccisa per fare soldi. Caricata di debiti non ha più avuto risorse da investire nella modernizzazione della rete, infatti abbiamo ancora 2,8 milioni di abitazioni senza connessione.
Ora la partita sulla facile preda è aperta. Venerdì scorso è stato nominato il nuovo amministratore delegato Pietro Labriola, un manager che conosce molto bene l’azienda. Resta da vedere quali saranno le intenzioni dei soci e della politica.dataroom@rcs.it
E stanno ancora cercando i grandu evasori fiscali tra gli scontrini di un bar!!!
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M A G N A R E ???!!!
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Stanno raschiando il fondo del barile! Dopo di che col c.. che si comprano vigne e vigneti ! Tanto sti ladri di stato sono impunibili! Questa è la vera tragedia italiana! Rubano tutti e sono tutti a casetta loro!
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La paga dei padroni
Giorgio Meletti – Gianni Dragoni
I numeri fanno impressione. Mentre la Borsa nel 2007 ha perso l’8 per cento circa, gli stipendi dei manager sono saliti del 17 per cento. Idem per il 2006. Lo stipendio di Alessandro Profumo, amministratore delegato dell’Unicredit, è cresciuto del 39 per cento (9 milioni 426mila euro). Il valore di mercato delle azioni Unicredit è sceso del 17 per cento. Perché? Non è demagogia. L’economia italiana è in piena recessione. I salari perdono potere d’acquisto. È sempre più difficile arrivare alla fine del mese. E la colpa di chi sarebbe? Dei dipendenti pubblici, definiti ‘fannulloni’, dei piccoli imprenditori, tutti evasori, dei lavoratori dipendenti, poco produttivi e troppo sindacalizzati. Manager, banchieri e capitani d’industria restano immuni da responsabilità. Per loro, se c’è qualcosa che non va è a causa della politica o del mercato internazionale. Ma non è così. Basta vedere quanto guadagnano, e come. Questo libro mette insieme gli stipendi e le storie della nostra classe dirigente. Un sistema granitico, di signorie e vassallaggi. I nomi sono sempre gli stessi da anni: Ligresti, Pesenti, Berlusconi, Moratti, Agnelli, Colaninno, Romiti, De Benedetti, Caltagirone, Benetton… E poi c’è Mediobanca, l’epicentro del potere finanziario da sempre, la scatola nera del privilegio. La parola chiave è una sola: fedeltà. Allora lo stipendio milionario è assicurato. Come insegna la saga infinita dei dirigenti pubblici, spostati da una parte all’altra, sempre con buonuscite record, e dopo aver accumulato, molto spesso, perdite disastrose. E quella dei capitalisti senza capitali, che controllano una società con un’altra società, un’altra ancora, un’altra… Così hanno diritto a pochi dividendi, ma il potere è loro, basta una firma ed ecco che scatta il compenso d’oro. La politica si può criticare. Ma guai a criticare gli imprenditori. Guai a criticare Confindustria, oggi governata da Emma Marcegaglia. Eppure almeno una domanda bisogna farla: perché se Confindustria Sicilia decide di espellere chi paga il pizzo lo stesso trattamento non vale per chi ammette di aver pagato tangenti? Nel marzo 2008 Antonio Marcegaglia, numero uno della Marcegaglia Spa, ha patteggiato undici mesi di reclusione, pena sospesa, per corruzione.
Sul libro vengono spiegati i meccanismi attraverso i quali Roberto Colaninno, coadiuvato da Rocco Sabelli, abbia potuto realizzare alcune scalate, citando l’acquisizione della Telecom Italia e quella della Piaggio. Gli autori scrivono che nella maggior parte dei casi i capitali utilizzati per l’acquisizione delle società vengono scaricati sulle aziende stesse sotto forma di debiti, aziende che si trovano a ripartire con uno “zaino” pesante. Non si ferma solo a questo ma spiega anche come i compensi dei manager derivino da speculazioni azionarie a danno dei risparmiatori che investono su queste nuove società non appena esse vengono quotate in Borsa. Le azioni vengono poste sul mercato a prezzi gonfiati, i manager realizzano i propri guadagni vendendo le azioni che si sono assegnati, poi le azioni scendono al loro reale valore di mercato e gli unici a rimetterci sono gli investitori e i piccoli risparmiatori[19]. Non risulta peraltro che Colaninno abbia mai posseduto stock option né di IMMSI né del Gruppo Piaggio
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Descrizione ferma, nella migliore delle ipotesi, al 2010.
La politica c’entra sempre.
È sempre stata permeabile.
La prima privatizzazione di Telecom, il 36% che non avrebbe permesso scalate ostili attraverso l’esercizio della golden share, fu utile per proseguire la posa di fibra ottica in tutta la nazione.
Il progetto Socrate era partito nel 1995.
Ma Prodi he aveva tale strategia fu detronizzato e al suo posto si sedette D’Alema che, scambiando degli speculatori bresciani per “Capitani coraggiosi”, dette il placet alla scalata senza esercitare la golden share che l’avrebbe impedita.
Berlusconi completo’ l’opera con la legge sul leverage by out, permettendo allo scalatore che avesse lanciato l’Opa, Tronchetti Provera, di fondere la scatola finanziaria piena dei debiti contratti per l’operazione con la società preda sana.
Telecom si è ritrovata, con la scusa di accorciare la catena di comando, riempita dei debiti contratti per scalarla.
Bello no?
E poi compensi da amministratore fuori dalla grazia di Dio e svendita del residuo e ancora consistente patrimonio immobiliare a chi?
A Pirelli Re, società appositamente creata che prese tali immobili pagandolo 10 e ritrovandosi a prezzo di mercato 100.
L’aspetto paradossale, grottesco e criminale fu quello di affittare tali immobili, sedi delle filiali locali della società sparsi sul territorio nazionale, alla stessa Telecom ad un canone annuo molto vicino al ridicolo costo di svendita.
Fu un modo per drenare ulteriori risorse nelle tasche di Tronchetti, che ai tempi cambiava yacht per prenderne di nuovi e più imponenti, su cui scorazzava e si faceva fotografare con Afef.
E scappava dalle assemblee degli azionisti quando si palesava Beppe Grillo che lo accusava pubblicamente mentre i giornalisti taceva o, anche perché era un’azionista importante di Gemina che controllava il gruppo editoriale RCS, con il Corriere, la GAZZETTA e La7.
Altri tempi.
Sempre di💩💩💩 as usual.
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Come mai, come mai sempre in c agli operai?
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Una manica di ladri insomma. Tutti quei milioni so io dove glieli ficcherei in monetine da 10 centesimi!
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