
(Alessandro Barbera – La Stampa) – Per uno scherzo del destino, dieci anni dopo i protagonisti sono gli stessi: Silvio Berlusconi e Mario Draghi. In quell’orribile autunno del 2011 il Cavaliere era capo del governo, l’altro stava per essere nominato alla guida della Banca centrale europea.
Allora come oggi l’uscita di scena dell’uomo di Arcore può provocare un terremoto sulla politica e sui mercati. Intendiamoci: l’Italia del 2022 non è nelle condizioni di allora. Venerdì lo spread fra Btp e Bund è risalito a quota 140 punti, il livello più alto dall’autunno del 2020. Siamo ancora ad un quarto dalla soglia raggiunta nei giorni della fine del governo Berlusconi.
Ma per perdere di vista l’ottimismo e chiedere di fare presto come allora basta allargare lo sguardo: uno stallo alla messicana sul Quirinale, i venti di guerra a Kiev, la coda del Covid, l’inflazione senza freni.
Con il passare dei giorni l’eventuale approdo di Draghi al Colle sfugge sempre più alle regole della politica. L’accordo sul governo che lo dovrebbe sostituire non c’è, e agli investitori lo scenario non piace per nulla.
Perché ciò che preoccupa i compratori del debito italiano non è se l’ex capo della Bce sia più utile a guidare il governo ancora per un anno o a sovrintendere il terzo debito pubblico del mondo per altri sette. Ciò che temono – e i fatti gli stanno dando ragione – è che la partita del Quirinale finisca comunque per travolgere il governo, la legislatura e l’attuazione del piano nazionale delle riforme.
Aggiungiamo a questo il contesto internazionale. I carri armati russi ammassati ai confini dell’Ucraina ci dicono che le probabilità di una guerra novecentesca sono tutt’ altro che lontane. Se la tensione non calerà, la conseguenza più immediata sarà un ulteriore aumento dei prezzi del gas, già saliti a livelli mai visti nella storia recente: +723 per cento dall’inizio della pandemia.
Gli ultimi dati di Confindustria dicono che a causa di quei prezzi la crescita italiana quest’anno perderà lo 0,8 per cento. Complice la variante Omicron, l’indice di fiducia delle imprese è tornato a calare, e ci sono segnali di un rallentamento dei consumi.
Il petrolio si avvicina pericolosamente ai novanta dollari il barile, e le banche centrali non hanno ancora capito come contenere la bolla inflazionistica da ripresa senza deprimerla. La successora di Draghi a Francoforte Christine Lagarde ha provato a far finta di nulla per settimane, poi la realtà ha preso il sopravvento anche sui colori sgargianti dei suoi foulard.
Due giorni fa, davanti all’ennesima platea virtuale del World Economic Forum di Davos – anche quest’ anno orfano dei grandi del pianeta – ha ammesso l’indicibile: «Tra un paio di mesi arriveranno nuove proiezioni, e se saranno diverse dalle attuali dovremo rivedere la tabella di marcia».
A dicembre i prezzi nell’area dell’euro sono cresciuti al livello record del cinque per cento. Un tetto che in tempi normali avrebbe già spinto la Bundesbank a battere le scarpe sui tavoli di Francoforte per porre fine alla politica monetaria ultraespansiva. Se finora non è accaduto, è perché la paura dell’aumento dei contagi è stato più forte di quella dei prezzi.
La primavera porrà fine al paradigma, e fra i banchieri centrali nordici si sta formando un blocco favorevole a dire basta sin da marzo al piano straordinario di acquisto titoli antipandemia. Per quanto lenta sarà l’uscita dagli stimoli, l’emittente Italia dovrà fare i conti con un aumento del costo del finanziamento del suo debito.
Ora proviamo a immaginare se tutto questo avvenisse con aumenti stabili dei prezzi energetici, e nel frattempo i partiti non fossero in grado di trovare un accordo politico sul governo che verrà. Il cronoprogramma del piano nazionale delle riforme dice che fra aprile e giugno l’Italia ha davanti a sé il doppio del lavoro fatto finora.
In palio non ci sono solo quaranta miliardi di fondi europei, bensì la credibilità del Paese. Di fronte a un fallimento non basterebbe nemmeno la reputazione di Mario Draghi. Non c’è whatever it takes possibile dal Quirinale, soprattutto se un altro governo non nascesse e l’Italia a primavera si trovasse in campagna elettorale.
Da oggi il primo pensiero fra i milleenove grandi elettori è chi possa essere la miglior garanzia per mandare avanti la legislatura ancora un anno e far scattare i requisiti minimi della pensione. Molti di loro non sanno o fanno finta di non sapere che la posta in gioco è molto più alta, e riguarda tutti.
E’ hiaro che quello, il Mario, pensa “Dopo di me, se non fermo lo spread, cosa verra’ dopo di me?” Poi si guarda allo specchio…
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“uno stallo alla messicana sul Quirinale”
L’ordine di scuderia è parlare di stallo.
E siamo alla vigilia.
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Intanto a Raitre, oggi…..
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Oggi, in mezzo a tante scemenze, e dopo aver nominato solo 31 volte Conte, ha detto con la modestia che lo contraddistingue che Salvini deve decidere se fare una schifezza come fece Bersani o se vuole fare lo STATISTA come fu lui. Ha proprio detto statista.
Chiaramente l’intervistatrice rimbambita non pervenuta.
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Dubito che più di 1 italiano su 100 mila
abbia capito cosa sia la trasmissione della annunziata, in particolar modo quella di oggi. 👇
👉 responsabile approf/rai (m. orfeo)
👉 1 autore della trasmissione: alessandro de angelis HP (gedi)
👉 Conduttrice: ex HP ( gedi)
Ospiti di oggi
👉 renzi: ha piazzato orfeo in rai
A seguire
👉 ezio mauro: repubblica/gedi
👉 mieli: editorialista cds/cairo
👉 mentana: La7/cairo
Facciano il loro gioco..
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Ec: renzi ha piazzato orfeo a dirigere il Tg1. Poi è diventato DG.
Anche alessandro de angelis, autore della trasmissione, era ospite.
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Cmq non la lieve impressione che con quest’articolo La Stampa (e i suoi mandanti) hanno scaricato pure Dragula dal progetto PdR?
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”’Non c’è whatever it takes possibile dal Quirinale, soprattutto se un altro governo non nascesse e l’Italia a primavera si trovasse in campagna elettorale.”’
Mi sa di sì, hanno scaricato Dragula x il Colle.
Vai, Marione, adesso ti toccherà lavorare di ramazza e cestino.
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