L’Italia rivendica che sono 57 i siti riconosciuti. Resta sotto sotto, però, la vecchia tentazione di rivendicare solo i primati senza la piena consapevolezza di doverne portare la responsabilità.

(di Gian Antonio Stella – corriere.it) – «Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero: / “Italia bella, io comperare; quanti dollari costare?” / Ma il ferroviere, pronto e cortese: “noi non vendiamo il nostro paese”» Una certa esultanza sviluppista per il recentissimo ritorno dell’Italia in cima alla classifica dei paesi con più siti Unesco («Il marchio Unesco vale un tesoro», «Unesco, un marchio da 100 milioni», hanno titolato dei giornali veneti) fa tornare in mente la deliziosa filastrocca di Gianni Rodari che spiegava come l’orgoglio, giustissimo, per il nostro Paese e il nostro patrimonio vada protetto non solo dai Vandali denunciati da Antonio Cederna ma anche dai rischi di una vanità sveltamente «monetizzata».

Dario Franceschini sottolinea che «con Padova Urbs Picta e Montecatini tra le Grandi città termali d’Europa diventano 57 i siti italiani iscritti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’umanità», il che fa del nostro paese (con altri 14 «patrimoni immateriali», dai pupi siciliani all’arte dei muri a secco) il primo al mondo davanti alla Cina. Bene. Ma è bene anche stare alla larga dalle sparate d’un tempo, tra cui quella di Super Silvio: «L’Italia è il paese che ha regalato al mondo il 50% del patrimonio tutelato dall’Unesco». Boom! Resta sotto sotto, però, la vecchia tentazione di rivendicare solo i primati (sia chiaro: evviva!) senza la piena consapevolezza di doverne portare la responsabilità. Esempio: «il turismo a Padova può aumentare di un altro 20%»? Purché sia chiaro che, a dispetto degli strilli sul «diritto» di «tutti» (tutti?) di ammucchiarsi a Venezia, San Gimignano o Pompei, la stupenda e delicata Cappella degli Scrovegni dovrà continuare ad accogliere, pena la rovina, non più di dieci persone alla volta e per soli dieci minuti. Fine.

E purché sia chiaro che il «bollino» Unesco non basta a cambiare le sorti di un tesoro culturale. Lo dimostra ad esempio (per citarne uno) di Villa Adriana a Tivoli: ebbe l’agognato marchio nel 1999. Eppure oggi ha meno visitatori di vent’anni fa, e va già meglio dopo aver subito cali vistosi. Colpa degli ingorghi pazzeschi sulla Tiburtina, dell’assedio di una poltiglia cementizia, dei tentativi di fare lì accanto una spropositata discarica di pattume… Prima di esser sbandierate e «messe a frutto», quelle nostre ricchezze vanno amate. E rispettate.