(di Giovanni Valentini – Il Fatto Quotidiano) – “Non è accettabile che nel 2017 ci siano ancora i piccoli partiti che mettono i veti”(Tweet di Matteo Renzi, segretario del Pd, da Porta a Porta – 31 maggio 2017). Sono passati poco più di tre anni dalla sera in cui Matteo Renzi, allora segretario del Partito democratico, pronunciò in tv la sentenza da lui stesso rilanciata sui social e riportata testualmente qui sopra. Alla guida del governo c’era Paolo Gentiloni e il leader di Area Popolare, Angelino Alfano, minacciava di uscire dalla maggioranza per sabotare un possibile accordo fra Pd, Movimento 5 Stelle e Forza Italia sulla nuova legge elettorale con una soglia di sbarramento al 5%. E contro quel ricatto, Renzi fu – come al solito – tranchant con gli alleati: “Se quelli non prendono il 5% e stanno fuori non è un dramma”.

Accreditato oggi di uno stentato 3%, al di sotto quindi di quella quota minima, Renzi subisce – secondo i sondaggi di Pagnoncelli – un “consenso calante”, collocandosi all’ultimo posto fra i leader politici nell’opinione degli italiani. Con due punti percentuali in meno della soglia allora ipotizzata, a capo adesso di un “piccolo partito” come Italia Viva, si permette però di lanciare un ultimatum al governo che proprio lui aveva promosso, aprendo la strada all’accordo Pd-M5S. Da “pesce pilota”, rischia così di trasformarsi in “mosca cocchiera” della maggioranza giallorossa, con la pretesa di fare il driver dell’esecutivo o quantomeno di condizionarne la sopravvivenza.

Con una rara abilità che gli va riconosciuta, quella di riuscire ad avere torto anche quando potrebbe avere ragione, Renzi arriva a minacciare apertamente la crisi di governo in piena emergenza sanitaria, economica e sociale, nonostante che il Quirinale abbia prospettato in questa eventualità il ricorso alle elezioni anticipate. Evidentemente, l’ex rottamatore ritiene che si tratti solo di uno “spauracchio” e non teme di mancare di rispetto al capo dello Stato. Non a caso riscuote gli applausi della destra nell’aula del Senato. Alla fine – a meno che poi non si accontenti di un rimpasto, secondo la logica spartitoria della Prima Repubblica – nella migliore delle ipotesi otterrà quello che probabilmente avrebbe potuto ottenere con toni meno intimidatori e più costruttivi, senza destabilizzare e indebolire il governo di cui il suo partitino fa parte: e cioè, l’assicurazione che la “cabina di regia” per la gestione dei 209 miliardi di euro del Recovery Fund sarà sottoposta – com’è ovvio – all’esame del Parlamento e all’autorizzazione del Consiglio dei ministri.

Fatto sta che il presidente Conte, per non smentire la sua fama ormai consolidata di mediatore, s’è affrettato a chiarire che si è trattato di un “colossale fraintendimento”, replicando che “una struttura di monitoraggio di cantieri e tempi è necessaria”. Magari per evitare un assalto alla diligenza degli stanziamenti europei. Nel frattempo, che lo abbia chiesto Angela Merkel o qualcun altro, una “cabina di regia” la Germania, la Francia e la Spagna l’hanno già costituita. E l’Italia ha ampiamente dimostrato in passato la sua lentezza e la sua incapacità nell’utilizzare tutti i fondi che l’Europa metteva a disposizione.

Questi sono purtroppo gli effetti mediatici della politica-spettacolo, amplificata dai talk show, inquinata dalla commistione dell’infotainment televisivo e radiofonico, immiserita dalla carenza di idee e di valori. La politica come business, affari, interessi. Ma quando si parla di soldi, non è raro che si finisca ai ricatti. Con tanti saluti alla stabilità del governo e di tutto il Paese.