(di Silvia Truzzi – Il Fatto Quotidiano) – Il video realizzato dagli infermieri dell’Ospedale Maggiore di Bologna è parecchio istruttivo. Spiega benissimo la loro condizione (“sono quello che hai minacciato perché ti ho assegnato il codice bianco”; “sono quello che hai spintonato”; “sono quello che hai denunciato”) e l’assurda parabola che hanno vissuto da febbraio a oggi.

Con la fine della fase acuta della pandemia gli infermieri sono passati da eroi celebrati con applausi collettivi e menzioni d’onore a soliti stronzi. Gli “angeli” tanto spesso citati nei commossi resoconti della stampa strappacuore sono professionisti sottopagati, precari, in tanti casi lavoratori atipici (molti lavorano per cooperative che a loro volta prestano manodopera agli ospedali). Tra le troppe vittime della flessibilità, si sono ritrovati (insieme a tutto il personale sanitario) a fronteggiare la marea dell’epidemia spesso (soprattutto nelle prime settimane) senza nemmeno dispositivi di protezione personale.

Da giorni stanno protestando in tutta Italia per vedersi riconosciuti gli aumenti di stipendio favoleggiati durante la crisi. Promesse non mantenute, che certamente avevano origine da un sincero riconoscimento del grande sacrificio di quelle settimane: mentre gli ospedali scoppiavano e noi stavamo chiusi in casa, il personale sanitario era in trincea (con l’aggravante della solitudine: moltissimi non hanno potuto vedere i propri familiari per proteggerli). Erano condizioni estreme, in una situazione che nessuno poteva prevedere. Ora però non li si può liquidare con una pacca sulla spalla o un bonus (di qualche euro), bisogna rispondere a domande (anche sui turni e gli organici) che riguardano loro come lavoratori e tutti noi come cittadini: se abbiamo imparato una lezione da questi mesi drammatici è che i servizi essenziali vanno garantiti sempre.

Ciò che denunciano gli infermieri però è anche la spia di un tic antropologico ben visibile nella nevrosi che affligge il dibattito pubblico. L’enfasi di ieri (“eroi”, “angeli”) è speculare alla sostanziale indifferenza di oggi. L’infermiere eroe è passato di moda: ora si parla di politici inginocchiati o del disegnino “lei” e “lui” sulla app Immuni. L’isteria infantile con cui si consumano a mezzo stampa questioni fondamentali (il razzismo, la discriminazione di genere) trasforma tutto in chiacchiere banali e, dunque, prive di significato.

In maggio, per una settimana, ha imperversato l’annuncio della fine del caporalato da parte della ministra Terranova piangente (“gli invisibili non saranno più invisibili”): ora si scopre che i braccianti continuano a restare irregolari perché pochissimi datori di lavoro (secondo Coldiretti e altre associazioni di categoria) stanno facendo richiesta. Intanto a Caltanissetta un ragazzo pakistano di 32 anni, Adnan Siddique, è stato assassinato per aver denunciato i caporali: non risultano pensosi commenti a reti e quotidiani unificati. Sono solo alcuni esempi di un sistema dell’informazione incontinente e quasi mai in grado di dominare il confronto di idee. Sia per una fraintesa par condicio delle opinioni, sia per una superficialità imperdonabile che si accontenta del titolo ad affetto e mira a suscitare emozioni tanto forti quanto passeggere.

Il guaio non è tanto per l’informazione in sé, ma per quello che dovrebbe essere il suo compito. Se non sappiamo più pensare, interpretare le notizie e dare una gerarchia ai fatti diventiamo funzionali a una società di sudditi. Dove l’infermiere è eroe per un quarto d’ora e, finito l’applauso, applauso può tranquillamente tornare a essere minacciato, sottopagato e dimenticato. Fino alla prossima emozione.