(di Milena Gabanelli e Rita Querzè – corriere.it) – «Mio nonno aveva il 70 per cento delle azioni Fiat in portafoglio e le gestiva dando dividendi bassi e in massima parte a se stesso. Preferiva accantonare a riserva e con le riserve costruì la grande Mirafiori». Questo raccontava l’avvocato Gianni Agnelli, che invece preferiva dividendi alti e il ricorso a denaro pubblico per allargare l’azienda. Il di lui nipote nonché erede John, di «grande» in Italia sta lasciando ben poco. A conti fatti il Gruppo automobilistico, che in dieci anni ha cambiato due volte nome, quanto ha ricevuto dallo Stato italiano? E a fronte di quali impegni? È noto che nella fase Fiat il gruppo ha potuto contare su un’ingentissima quantità di fondi pubblici. Interi stabilimenti al Sud sono stati costruiti con risorse di Stato (Melfi, Termini Imerese). Impossibile ricostruire quanto è stato dato in valore assoluto, e tantomeno le contropartite. Presso i ministeri competenti le carte non si trovano. Secondo un’indagine condotta da Davide Bubbico, docente di sociologia economica dell’università di Salerno, partendo dai contratti di programma siglati spesso con il Cipe, tra il 1990 e il 2019 (includendo anche Magneti Marelli, Iveco e Pwt) il complesso dei contributi ammonterebbe a circa 4 miliardi di euro, a fronte di poco più di 10 miliardi di investimenti dichiarati. Si tratta di una ricostruzione inevitabilmente parziale, dalla quale però si può stimare che almeno il 40% degli investimenti Fiat siano stati finanziati negli anni dallo Stato italiano.

Cambia il nome, cambia tutto

Il 12 ottobre 2014 dalla fusione di Fiat e Chrysler nasce Fiat Chrysler Automobiles (FCA), con sede legale ad Amsterdam e domicilio fiscale a Londra. Il ceo Sergio Marchionne riduce la richiesta di aiuti pubblici ma le sovvenzioni statali, seppur contenute, continuano. Nel 2020, nel pieno della pandemia, con il governo Conte II in carica, FCA riceve 6,3 miliardi di prestito coperto da garanzia pubblica. La linea di credito doveva essere utilizzata per pagare gli stipendi, i fornitori e mantenere gli investimenti programmati in Italia. Denaro certamente utile alla fusione con il gruppo francese Psa, da cui nasce, il 17 gennaio 2021 Stellantis, che poi si libera dai vincoli saldando i conti con un anno di anticipo. Al comando arriva Carlos Tavares, il ceo più pagato d’Europa: 23 milioni di euro l’anno, tanto quanto lo stipendio di mille dei suoi metalmeccanici.

Aiuti di Stato e ammortizzatori

Dal 2016 è operativo il Registro nazionale aiuti di Stato. Lo abbiamo consultato: da ottobre 2016 a gennaio 2024 sono stati versati, prima a FCA e poi a Stellantis, aiuti per 100 milioni di euro. Inclusi i circa 7 milioni di incentivi per rinnovo macchinari con industria 4.0. C’è poi la cassa integrazione. Da fonte Inps vediamo per la prima volta i numeri esatti: fra il 2014 e 2020 FCA ha ricevuto contributi per 446 milioni (di cui 263 a carico dell’azienda). Dal 2021 ad aprile 2024 la cassa sale a 984 milioni (280 a carico dell’azienda). Tirando le somme: in nove anni fra cassa integrazione, agevolazioni per assunzioni e contratti di espansione, abbiamo sborsato di tasca nostra quasi 887 milioni.

Dipendenti: 10 mila in meno in 3 anni

A fronte di tutte queste elargizioni, come sta andando il gruppo Stellantis? Quando è nato (gennaio 2021) negli stabilimenti italiani lavoravano 52.740 addetti. A fine 2023 i dipendenti erano scesi a 42.700. Il perimetro del gruppo è rimasto invariato. Quindi persi in tre anni 10 mila posti di lavoro. Si tratta di uscite volontarie incentivate con «scivoli» che viaggiano fra i 30 e i 130 mila euro. E quindi quanto ha «investito» l’azienda per fare uscire lavoratori dagli stabilimenti italiani? Stellantis non lo dice. Si stima siano stati mobilitati 6-700 milioni. Intanto l’emorragia continua: secondo la Fim, che firma gli accordi per la cassa e oggi presente in tutti gli stabilimenti, ci sono altri 3.000 esuberi.

I casi Melfi e Mirafiori

Sullo stabilimento di Melfi, fra il 1991 e il 2020 sono stati erogati 3,35 miliardi di fondi pubblici destinati alla costruzione dell’impianto e al suo indotto. Nel 2021, quando è nata Stellantis, i dipendenti erano 6.800, oggi sono scesi a 5.600Mirafiori nel 2006 produceva 218 mila auto, quest’anno secondo la Fiom, rischia di scendere sotto le 21 mila, il minimo storico. In quello che è stato il più grande stabilimento europeo, aperto nel 1939, oggi si produce solo la 500 elettrica e le Maserati Gt e Gran Cabrio. L’età media dei dipendenti è di 57 anni, vuol dire che se non ci saranno assunzioni chiuderà per consunzione.

Una montagna di dividendi

Nello stesso periodo come se la passano gli azionisti? Benissimo. Quello principale è la famiglia Agnelli attraverso Exor con il 14,9%, poi ci sono lo Stato francese con poco più del 6,4% e la famiglia Peugeot con il 7,1. A partire da gennaio 2021 a maggio 2024 Stellantis ha distribuito 16,4 miliardi di euro di dividendi, di cui 2,7 sono andati nella holding di John Elkann ad Amsterdam. E per l’anno prossimo il gruppo ha già annunciato che la quota di dividendi distribuita aumenterà.

Il fondo per l’automotive

E che succede da qui in avanti? Il governo Meloni ha messo in campo 350 milioni per convertire lo stabilimento di Termoli in una gigafactory. Ma Acc, la joint venture partecipata da Stellantis con Total Energies e Mercedes Benz, sta mettendo in dubbio il progetto per costruire batterie. C’è poi il fondo da 8,7 miliardi per l’automotive voluto dal governo Draghi nel 2022 e da spendere entro il 2030. Ad oggi ne sono stati assegnati 2,7. Ne restano altri 6, ma per ora non è ancora stato deciso come utilizzarli. Quei 2,7 miliardi invece come vengono impiegati? Poco più di 800 sono destinati a contribuire ai nuovi progetti di investimento delle imprese dell’automotive. Quanto di questi fondi andrà a Stellantis? Il gruppo ha presentato richieste e progetti, il Mimit però non rende noto per quale ammontare.

Gli ecoincentivi a tutte le auto

Il resto, cioè 1,95 miliardi stanno incentivando l’acquisto di nuove auto. Il 40% (quasi 800 milioni) va alle auto Stellantis, di cui solo la metà prodotte in Italia.

Il governo Meloni ha riorganizzato gli incentivi in modo da indirizzarli su auto prodotte in Italia, quindi la 500 elettrica, le Jeep hybrid ricaricabili, ma anche la Panda a benzina prodotta a Pomigliano. Quest’anno ci sono 403 milioni destinati alle termiche con emissioni fra 61 e 135 g/km. Nessun altro Paese europeo incentiva l’acquisto di auto in questa fascia di emissioni. Va anche detto che secondo uno studio della Commissione Ue, le ibride ricaricabili in realtà inquinano di più di quanto dichiarano perché utilizzate raramente in elettrico. Resta il dubbio se valga la pena di incentivare auto che inquinano senza nemmeno avere garanzie sulla produzione in Italia.

Il quadro: niente impegni

A fronte di ingenti contributi pubblici, i governi che si sono succeduti dal 2020 a oggi non sono riusciti a vincolare Stellantis a impegni precisi sulla produzione e l’occupazione nel nostro Paese. La Panda elettrica si farà in Serbia. Nell’ex stabilimento Fiat in Polonia si farà l’auto elettrica cinese Leapmotor, tagliando fuori tutta la filiera della componentistica italiana. Però in nome dell’ «italian sounding» il ministro Urso ha obbligato Stellantis a togliere il tricolore dalle Topolino perché prodotte in Marocco, e a far cambiare nome alla Alfa Romeo Milano, perché prodotta in Polonia. Si agisce sulla forma quindi, mentre dal punto di vista della sostanza ci siamo schierati in Europa contro il nuovo standard Euro 7 (meno inquinante), avversato da Stellantis. Sta di fatto che da parte della casa automobilistica un piano industriale vincolante sull’Italia non c’è. E gli impegni che erano stati presi, al momento sono solo chiacchiere.

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