Il magistrato che ereditò il lavoro di Falcone e Borsellino: «Penso ai colleghi uccisi. Con loro il sistema di protezione non ha funzionato: mi sono sentito in dovere di sdebitarmi»

Caselli: “Totò Riina voleva uccidermi con un missile”

(PAOLO GRISERI – lastampa.it) – Quante volte hai avuto paura di morire? «Tante. Sapevo bene quel che rischiavo. Borsellino diceva: come si fa a non avere paura della mafia? L’importante è avere un po’ più di coraggio per superare la paura». La volta che sono andati più vicini a riuscirci? «I terroristi di Prima Linea. Qui sotto casa mia, nel controviale, davanti a un ristorante giapponese».

Gian Carlo Caselli, 85 anni, è uno dei magistrati che hanno sconfitto le Br. Si è insediato al vertice della Procura di Palermo il giorno dell’arresto di Totò Riina. Ha istruito, tra gli altri, i processi contro Giulio Andreotti e Marcello dell’Utri. Sotto il suo coordinamento la procura di Palermo ha arrestato centinaia di persone accusate di far parte o essere colluse con Cosa Nostra. Sono passati quasi 50 anni dalla lotta al terrorismo e una trentina dalla guerra alla mafia.

A giudicare dall’arredamento del suo studio, pieno di pupi siciliani con le loro scintillanti armature e di fotografie con i poliziotti di scorta palermitani, sembra che quella che ha inciso di più nella sua biografia sia stata la lotta a Cosa Nostra: «La lotta al terrorismo mi è arrivata addosso per un meccanismo giudiziario che si chiama connessione: ti stai occupando di episodi legati alla criminalità politica, ti arriva sulla scrivania il fascicolo del sequestro Sossi. La guida della Procura di Palermo l’ho scelta io. Dopo dieci anni di lotta al terrorismo avrei potuto rimanere a Torino nel gratificante incarico di presidente di Corte d’Assise».

Perché un padre di famiglia, magistrato ormai al vertice della carriera, decide di tornare a rischiare tutto nella Procura in cui sono stati uccisi Falcone e Borsellino? «Te lo senti dentro. Hai una responsabilità. Sei in vita mentre tanti tuoi colleghi sono stati uccisi. Magari perché con loro i sistemi di protezione non hanno funzionato. A Milano erano stati uccisi Galli e Alessandrini che indagavano su Prima Linea esattamente come me. Erano meno protetti e ci hanno rimesso la vita. Ci pensi sai?». Ti senti un sopravvissuto? «In un certo senso. Ti senti in dovere di restituire quel che hai avuto.

Dopo l’assassinio di Falcone e della sua scorta ero a Milano ad una commemorazione. Mi avvicina un alto ufficiale dei carabinieri: “Il dottor Borsellino le manda a dire che non è ancora arrivato il momento di andare in pensione”». Un passaggio di testimone? «Sul momento non capii bene. Ci ripensai dopo al significato di quella frase». Perché tu ti sei salvato? «Perché a Palermo dopo Falcone e Borsellino i sistemi di protezione hanno funzionato meglio. Ricordo ancora la disperazione di Giuseppe Costanza, autista di Falcone. Non si dava pace.

Quel mattino, a Punta Raisi, Falcone gli chiese di guidare lui. Costanza si mise sul sedile posteriore e sopravvisse all’esplosione. Da allora le regole sono diventate molto più rigide. Nessun autista oggi lascerebbe le chiavi dell’auto blindata». Insomma, senza quell’episodio Falcone si sarebbe potuto salvare? «Questo non lo so. Ma i fatti sono questi».

Storie difficili da raccontare in famiglia. Come hai detto che saresti andato a Palermo? «Non l’ho detto così. Anche perché non è capitato così. Mano a mano che trascorrevano le settimane dopo le stragi del ’92 quella che era un’ipotesi si è fatta reale. In famiglia abbiamo seguito tutti questo percorso graduale». Ma la famiglia è rimasta ovviamente a Torino: «Era più sicuro. Un Natale il questore di Palermo, Antonio Manganelli, poi diventato capo della polizia, organizzò un viaggio di rientro che durò alcuni giorni. Abbiamo fatto un mezzo giro d’Italia. Poi a casa a Torino festeggiammo con le tapparelle chiuse». Nonostante tutte queste precauzioni il rischio a Palermo era altissimo: «Un giorno mi telefona di corsa il questore, Arnaldo La Barbera». Proprio lui? «Sì. Successivamente sono emersi fatti molto gravi riguardanti il depistaggio sull’assassinio di Borsellino e la gestione del G8 di Genova. Ma con me si comportò sempre in modo esemplare. Presi dentifricio e spazzolino e venni portato d’urgenza all’aeroporto militare di Bocca di Falco». Che cosa era successo? «Lo intuii tempo dopo. Il pentito Gaspare Spatuzza aveva raccontato che c’era un piano di Cosa nostra per uccidermi sparando un missile sul mio alloggio da Monte Pellegrino, la montagna che sovrasta Palermo». Non fa piacere scoprire certe cose: «Infatti non le ho mai volute sapere se non per quel che serviva alle mie indagini. Poi è capitato che a Torino si svolgesse l’udienza di un processo che prevedeva la testimonianza di Gaspare Spatuzza. Laura, mia moglie, ha voluto andare a sentire. Ho tentato di dissuaderla. Sapevo che cosa avrebbe detto il pentito. Ma lei, testarda, ha insistito». Laura entra nello studio nel preciso momento di questo racconto: «È vero, volevo ascoltare quella testimonianza. Ci sono andata, lui non voleva. Non è stato piacevole ma ho fatto bene».

Perché qualche volta è meglio non sapere? «Perché ciò che non riguarda direttamente il tuo lavoro non deve turbare la tua serenità. Mentre indagavo sul terrorismo trovammo in un covo a Tortona una registrazione di un’ora con le dichiarazioni del giudice Sossi durante il sequestro delle Br. Immaginai che cosa avrei detto se al posto di Sossi ci fossi stato io. Sei in una condizione di estrema costrizione. Andai nel covo con il capo della procura di Torino, Bruno Caccia. C’erano ancora le assi di legno numerate per costruire la cella. A turno ci facemmo rinchiudere. Una sensazione di soffocamento orribile».

Decenni di vita sotto scorta, di relazioni filtrate dalle esigenze di sicurezza. Un inferno. Ma anche i momenti esaltanti: la sconfitta del terrorismo e l’arresto dei boss mafiosi. Negli anni Novanta, dopo Mani pulite, i magistrati sono diventati delle star. Un bene? Un pericolo? «C’è stato un momento in cui si gridava Borrelli, Caselli, giudici gemelli. Ma era un’esagerazione da tifosi. Se il magistrato diventa una star c’è qualcosa che non funziona. Parlo per tutti, a cominciare da me. Il criterio deve sempre essere quello di condannare e assolvere a prescindere da quel che chiede la piazza».

Ma è sempre così? «Diciamo che se l’opinione pubblica ti sostiene fa piacere. Ma non può essere certo quella la bussola che guida il tuo lavoro. La bussola è sempre la ricerca della verità». E poi ci sono i casi in cui, al contrario, ti senti isolato…«Durante le indagini sul terrorismo arrestammo Giambattista Lazagna. Un avvocato, un partigiano, un frequentatore delle riunioni della corrente di Magistratura democratica, quella cui appartenevo. Insomma, uno del nostro mondo. I colleghi votarono una mozione di censura nei miei confronti (con l’eccezione, va ricordato, di Livio Pepino). Volevo dimettermi dalla corrente. Andai da Mario Carassi, consigliere istruttore, un’autorità per tutti noi. Aveva fatto il partigiano nel partito d’azione. Mi disse: “Prima fai il processo e poi, eventualmente dimettiti”».

Può capitare che l’isolamento di un magistrato produca effetti anche dopo molto tempo: «Ricordo perfettamente la votazione in Csm sulla scelta del nuovo capo della Procura di Palermo. Io ero per la nomina di Falcone, la scelta più naturale. Finii in minoranza anche dentro la mia corrente. Fu nominato Meli, scelto con il criterio dell’anzianità di servizio. Borsellino diceva che Giovanni ha cominciato a morire quel giorno».

Il Csm, dopo il caso Palamara è diventato per molti sinonimo di degenerazione, di quanto le correnti possano far male alla credibilità della magistratura: «Sono stato al Csm tra l’86 e il ’90. Il suk raccontato da Palamara non lo ricordo. Forse è arrivato dopo». Le correnti ma anche le invasioni di campo: un’altra delle accuse che si rivolgono oggi ai magistrati è quella di sostituirsi alla politica. Siete degli invasori? «Io sono per la rigida separazione dei poteri. È grave se la magistratura si sostituisce alla politica. Vorrei però ricordare che spesso è la politica a chiedere alla magistratura di invadere il suo campo. Capita spesso, quando i politici non hanno il coraggio di scegliere. Fu un errore non intervenire all’origine del terrorismo o considerare la lotta alla mafia come uno scontro tra guardie e ladri. Siamo arrivati al punto di aspettare la sentenza di un giudice per decidere sul fine vita. Spesso alla politica conviene l’invasione dei giudici, perché le tolgono le castagne dal fuoco».

Come si distrae, come si diverte uno che ha fatto la tua vita? «Premetto che anche facendo il mio lavoro ho avuto dei momenti diciamo così di divertimento. Per esempio durante l’interrogatorio di Peci». Non si riesce a immaginarlo durante le confessioni del primo pentito delle Br: «Perquisendo i covi trovavamo le cartelline con le indagini dei brigatisti sulle abitudini di vita dei loro obiettivi. Le Br avevano intitolato il mio dossier “Casella postale”. Scherzando ho detto a Peci che l’opinione positiva che avevo di me non era rappresentata da un’ordinaria casella postale. Lui sorrise e spiegò: “Dottor Caselli forse questo nome dipende dal fatto che chi la pedinava di mestiere faceva il postino”». Sport? «Fino a quando ho potuto ho giocato a tennis. E poi ho tifato per il Toro». Mai giocato a calcio? «Molte volte in oratorio a Torino e a Palermo durante le partite del cuore». Nessuna paura di esporsi in mezzo al campo di uno stadio? «Il rischio ovviamente c’era. Ma anche la mafia ha i suoi codici. Non si ammazza un Procuratore mentre corre in calzoncini corti durante una partita di beneficenza».