(Alessandro Cannavale – ilfattoquotidiano.it) – Su questo blog si è trattato più volte il tema delle cosiddette “autonomie differenziate”, sin dal 2017. Qui si è provato a monitorare i divari persistenti nel Paese, cercando di conoscere (per contrastare) le derive della Questione Meridionale, che ha prodotto i propri peggiori effetti soprattutto quando ha incontrato una classe politica pronta a negarne esistenza e consistenza.

Il percorso delle “autonomie differenziate” non va ascritto esclusivamente al presente governo, ma a tutti i partiti e movimenti che lo hanno caldeggiato, sostenuto, fiancheggiato, almeno dai lavori della Terza Bicamerale. Con la riforma del Titolo V, la Costituzione italiana si è adeguata ha introdotto il decentramento in chiave di ordinamento regionale.

Oggi cogliamo le battute finali di un processo lungo, articolato, risalente almeno al 1999, anno in cui fu approvata la legge costituzionale che ha introdotto l’elezione diretta dei presidenti di Regione, non a caso enfatizzati sui media come “governatori”. All’anno successivo risalgono le modifiche al Titolo V della Costituzione italiana, che furono confermate con un referendum popolare. Si pervenne alla Legge Costituzionale che, nell’articolo 117, delineava le materie di competenza statale e quelle di competenza “concorrente” con le regioni, recando in seno la possibilità di estendere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Con la legge 42 del 2009 si formò l’assetto dei rapporti tra lo Stato e le Regioni in materia di federalismo fiscale, con cui veniva introdotto il principio del finanziamento degli enti tramite compartecipazioni al gettito tributario, piuttosto che mediante trasferimenti statali, come in precedenza.

Nel frattempo, non trovavano definizione i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) – previsti dall’articolo 117, lettera m – ossia dei livelli di servizi da garantire ai cittadini, per erogare i diritti sociali e civili in modo omogeneo sul territorio nazionale, attraverso l’individuazione dei cosiddetti “fabbisogni standard”. Dopo più di venti anni i Lep non hanno ancora trovato una definizione, fino a inizio 2024. Nonostante quanto previsto dal decreto attuativo della Legge 42/2009, il D. Lgs. 68/2011, non si è mai superato il meccanismo della spesa storica nel finanziamento delle regioni, spingendo la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 220 del 2021 a censurare apertamente il ritardo nella definizione dei Lep.

Facendo leva sul nuovo testo del Titolo V della Costituzione, tre Regioni a statuto ordinario (il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna) nel 2017 si sono unite nella richiesta di maggiori autonomie, giungendo a sottoscrivere una dichiarazione di intenti il 18 ottobre dello stesso anno con il governo presieduto da Paolo Gentiloni, stipulando le Pre-intese con il medesimo governo il 28 febbraio del 2018. La trasversalità politica delle tre amministrazioni regionali ha dato particolare propulsione all’iniziativa. Questa trasversalità spiega anche la mancata vigilanza di gran parte della classe dirigente meridionale che probabilmente avrebbe potuto attivare percorsi di informazione e condivisione col proprio elettorato, per remore e vincoli di partito e ideologia. Le attività di diverse reti di sindaci e cittadini (come Carta di Venosa, per citare una rete che ho personalmente conosciuto) si sono spinte a sensibilizzare centinaia di amministratori del Sud, consiglieri di vari enti, associazioni, attraverso messaggi di posta elettronica certificata che invocavano iniziative e interazioni con la cittadinanza sul tema. Con un numero relativamente basso di riscontri.

Il 23 gennaio 2024, il Senato ha approvato il disegno di legge d’iniziativa governativa, collegato alla manovra, sull’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Da più parti provengono preoccupazioni sul nuovo assetto amministrativo che potrà scaturire dall’iter sopra accennato. Secondo diversi osservatori, tra cui il prof Gianfranco Viesti, “L’Italia diverrebbe un paese arlecchinesco, con quattro regioni a statuto speciale, due province autonome e quindici regioni a regionalismo differenziato”. Con il docente barese, autore di Contro la secessione dei ricchi, edito da Laterza nel 2023, ci si domanda quale sarà l’effetto di nuovi equilibri/squilibri sul resto del Paese (nelle aree fragili del Nord e del Sud). E, soprattutto, se non sia il caso di maturare riflessioni più approfondite su temi come il servizio idrico, l’istruzione scolastica e la sanità.

Ad esempio, la Fondazione Gimbe ha espresso apertamente perplessità sul rischio che possano aumentare le disuguaglianze negli accessi alle cure, nonché nella relativa qualità. Secondo l’autore del volume e altri osservatori, sembrano prospettarsi piccole realtà statali, generate in modo surrettizio: si procede verso un incremento del livello di entropia istituzionale? È legittimo chiedersi se con un nuovo assetto di questo tipo lo Stato possa mantenere (o riprendersi) il proprio ruolo nelle grandi programmazioni infrastrutturali?