(di Moreno Pisto – mowmag.com) – Di interviste al generale Roberto Vannacci ne avete lette tante, troppe. Questo è il racconto di un giorno intero passato con lui, l’uomo del momento (da quasi un anno…). Che molti vedono come il nemico pubblico numero uno. Che tra poco annuncerà la sua candidatura alle elezioni europee (la prova definitiva è alla fine del reportage). Che il 24 aprile, vicino a Bologna, farà l’ennesima presentazione del suo libro Il coraggio vince dove sono attese manifestazioni e proteste. Ecco, noi lo abbiamo seguito proprio per un’altra presentazione piena di polemiche, a Vicenza. Tra predicatori terrapiatisti, politici pro Putin, sosia di Bugo e Vasco Rossi, cene deliranti e cani senza un occhio. Anatomia di un viaggio (allucinogeno) in 16 capitoli per rispondere alle domande: perché ne abbiamo così paura? Perché ha così successo? Siamo pronti ad assistere alla sua scalata al potere?

L’Italia è il Paese che amo. Lo capisco con immotivata lucidità nel preciso istante in cui vedo il predicatore complottista terrapiattista Marco Zanasi sciorinare la lista delle squartatrici tedesche per conto del Grande Satana, sputacchiare nel piatto di baccalà mantecato del suo vicino di posto, alzarsi con un coltello a punta tonda in mano e scattare verso il tavolo del generale Vannacci sbraitando e bestemmiando. Giuseppe Cruciani lo placca: «Oooh ma che fai? Torna a sedere» gli urla. La gente intorno riprende con i cellulari. Un filosofo dalla erre moscia che pare il figlio anoressico e problematico di Vittorio Sgarbi è schifato. Stefano Valdegamberi, l’unico politico italiano ammesso in Russia come osservatore alle ultime elezioni presidenziali, ghigna. Un altro generale, l’ex carabiniere Pappalardo, è estasiato. La sua amica moldava è sconvolta. Vannacci ride. Io penso: com’è possibile che tutto questo stia accadendo? Com’è possibile che, in una taverna di un ristorante nel centro di Vicenza, sia racchiusa, in pochi metri quadrati, cotanta surrealtà? Dio è un genio. L’Italia, un posto meraviglioso. Però, per spiegare come sia finito qui, bisogna partire da lontano. Dal 27 agosto 2023.

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Se tra 5 anni quest’uomo sarà premier diremo che noi abbiamo assistito agli inizi. E come sempre negli inizi c’è già tutto

1. Quel giorno torno a Montecatini Terme dopo le vacanze estive in Basilicata. Avevo deciso di lasciare il cellulare in Toscana per fare due settimane di detox digitale. Quando lo riaccendo e mi riconnetto con il mondo, in mezzo a centinaia di messaggi su whatsapp, uno mi colpisce per la sua apparente assurdità. È una domanda: «Cosa ne pensi del generale?» Il generale? Quale generale? Che domanda è? Il 10 agosto era uscito il suo libro, il 17 Repubblica lo ha recensito con toni scandalizzati e da lì è scoppiato il caso Vannacci. In nemmeno un anno ha scritto due libri, Il mondo al contrario e Il coraggio vince. Entrambi casi editoriali. Lui viene intervistato dalle migliori trasmissioni televisive e dai migliori giornalisti italiani, viene fermato per strada, giovani ventenni come signore di novant’anni gli chiedono un selfie, gli stringono la mano, lo incoraggiano ad andare avanti. Soprattutto: pare il nemico pubblico numero uno. Ogni sua presentazione si trasforma in una manifestazione di protesta. Ogni sua frase, una polemica. Ma perché Vannacci fa così paura? E perché ha così successo? Insomma, per rispondere alla domanda del messaggio – cosa ne pensi del generale? – una semplice intervista non basta. Decido di seguirlo per una giornata intera. Ecco perché mi ritrovo a passare ore e ore assurde nel delirio più totale, a cena con personaggi folli, a casa di una sua fan con i sarcofagi egizi all’ingresso e a parlare con lui fino alle due di notte mentre uno dei miei accompagnatori se ne stava a petto nudo nella reception dell’hotel limonando con una conosciuta qualche ora prima. Tutto incredibile. Tutto bellissimo. 

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2. Il viaggio comincia a Milano, l’appuntamento è allo storico Bar Picchio, un posto non proprio da radical chic: massimo disordine, condizioni igieniche al limite. Sono quasi sicuro che, entrando, si venga risucchiati in un buco nero degno di William Burroughs dove il tempo si blocca, le incrostazioni sulle tazzine non si lavano, le persone non invecchiano e i proprietari sono delle creature metà vive metà morte. Infatti qui Gabriele Micalizzi si trova perfettamente nel suo habitat. Micalizzi è il fotografo di questa spedizione. Personaggio da romanzo con il quale ho scritto la sua autobiografia (intitolata In Guerra) dopo che le schegge di un razzo RPG lo avevano colpito in Siria, nel 2019. Ne porta ancora i segni addosso: è vivo per miracolo, ha la faccia rovinata, l’udito compromesso e due dita della mano destra maciullate. Chiunque altro avrebbe smesso di fare il reporter di guerra. Lui no. Appena possibile, è tornato al fronte. Forse perché è già morto. Forse perché è immortale. Insomma, anche lui è mezzo vivo e mezzo no. 
   Mi aspetta seduto a un tavolino del Picchio insieme al suo assistente (gli assistenti dei fotografi non hanno nomi, sono gli assistenti dei fotografi e basta). Aspettiamo un altro Gabriele, il mio personal trainer (il perché proprio il mio personal trainer mi segua in questo servizio lo spiego tra poco). Gabri il fotografo e Gabri il personal non si conoscono. E quando Gabri il personal si presenta, Gabri il fotografo lo squadra: ha le Nike di Travis Scott neroblu, i jeans strappati, la t-shirt attillata sui bicipiti e i pettorali gonfiati, i capelli alla Gabriel Garko, il viso lampadato, gli occhiali graduati. Gabri il fotografo è così: annusa le persone e decide se gli piacciono oppure no. Quindi, per spezzare ogni imbarazzo, abbandono qualsiasi delicatezza e fisso Gabri il personal chiedendogli: «Come è andata ieri sera? Hai sputato in bocca all’uomo anche a ‘sto giro?». Piccola premessa: dovete sapere che Gabri il personal si diverte passando nottate hard con coppie e arriva proprio da una di queste esperienze. Tempo fa mi raccontò che, mentre stava scopando con la lei della coppia sul letto, il suo compagno era sdraiato sul pavimento a masturbarsi. A un certo punto si tirò su per osservarli meglio e Gabri il personal, capendo che lui in realtà voleva solo essere sottomesso, fece un gesto volgare e potente, ovvero sputargli in bocca e spingerlo giù con una pedata sul petto. Gabri il personal, senza vergognarsi, risponde: «No, stavolta ho sputato in bocca a lei mentre era sul tavolo e le stringevo la gola». Gabri il fotografo si muove al rallentatore. Evidentemente sta cercando di mettere insieme tutti i tasselli e quando realizza che ha sentito bene, fa partire una delle sue risate gracchiate da corde vocali intrise di catrame e nicotina. Ok. Possiamo andare. Prendiamo quattro caffè, quello di Gabri il fotografo macchiato alla Sambuca, e montiamo in auto. 

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Michela Morellato, l’organizzatrice dell’evento

3. Da Milano a Vicenza il navigatore indica due ore e 21 minuti. Ci mettiamo un’ora e 55. Merito (o colpa) di Gabriele Micalizzi. Quando guida sembra sempre che stia scappando da un luogo dove è appena avvenuto un attacco nucleare: va velocissimo, è nervoso, bestemmia, offende pedoni, altri automobilisti, ciclisti, scooteristi, chiunque; frena all’ultimo momento, in autostrada è uno di quelli che ti si appiccicano al culo fino a quando non ti fai da parte. Tu che sei in auto con lui hai due scelte: o ti godi la situazione come se stessi giocando a GTA oppure preghi. Riesco a fare entrambe le cose contemporaneamente. L’incontro con Vannacci è a casa di Michela Morellato (collaboratrice di MOW e organizzatrice dell’evento al teatro Astra) e per arrivarci passiamo da un quartiere periferico di Vicenza pieno di locali etnici, barbieri afro, nigeriani in bicicletta. Ci fermiamo per far attraversare una madre nera con le treccine viola, una giacca di pelo arancione, degli stivali bianchi e un passeggino dove è seduto un bambino con i dreadlocks. La guardiamo passare in silenzio e poi Gabri il personal fa: «Che cazzo è, Compton?». Gabri il fotografo sbotta in un’altra risata gracchiata. Compton è la città della contea di Los Angeles dove si è scatenata la guerriglia di Black Lives Matter. A me diverte il contrasto tra la multietnia delle città italiane (che si è appena palesata davanti a noi in tutta la sua evidenza) e la nomea della persona che stiamo andando a incontrare: l’uomo che più di tutti, oggi, nel nostro Paese, viene additato dai suoi avversari come razzista e difensore della specie italica.

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4. Sono le 14:45. La presentazione è alle 17 e davanti al teatro Astra ci sono già le camionette e gli agenti in assetto antisommossa. Intanto, nel cortile della villetta di Michela Morellato l’atmosfera è da grigliata domenicale. Manca la carne ma il resto c’è tutto: l’atmosfera conviviale, la leggerezza, il tavolo con le tartine e le lasagne (fredde, immangiabili) e le persone intorno, una più improbabile dell’altra. Su Michela Morellato potrei scrivere un altro reportage: bionda, aria da vamp, tette enormi, battuta sempre pronta (a sfondo sessuale). È colei che ha interrotto la carriera di Amedeo Goria, noto giornalista sportivo della Rai, dimostrando di essere stata vittima delle sue molestie. Sempre per lo stesso motivo ha costretto alle dimissioni un generale dell’esercito statunitense, giusto il numero tre di tutta la gerarchia militare americana. E in passato è stata pure accusata di spionaggio. Michela, insomma, è una storia a sé. Mi ha raccontato tutte queste cose in una cena a casa mia, dove c’era pure Gabri il personal: ecco spiegato perché anche lui è venuto con noi.   
   Poi ci sono: Giuseppe Cruciani (condurrà lui l’intervista al generale) con il suo cappello di Borsalino, tutto vestito di nero, le Premiata ai piedi, gli occhiali da sole e gli anelli alla Dagospia. E, a seguire: uno che pare Bugo più giovane, solo che oggi il suo ruolo è fare l’autista del van; un ragazzo mulatto grassottello (come si deve dire oggi, diversamente magro? Come?) impegnato a parlare con un altro giovane ben vestito dalla “erre” moscia, effeminato, occhiali da vista, ciuffo che pende sulla fronte e un linguaggio forbitissimo da far invidia a un intellettuale. Sembra il figlio problematico di Vittorio Sgarbi o la copia in carta carbone del pensatore complottista Diego Fusaro. Michela Morellato indica il mulatto diversamente magro: «Lui è il mio manager». Poi sposta lo sguardo: «Lui invece è un filosofo allievo di Diego Fusaro». Ah ecco. Avevo capito tutto. E poi, naturalmente, c’è lui. Il divo. Il protagonista. Roberto Vannacci. Il generale. Alto 1,90 circa, sbarbato, capello e postura da caserma: gesti ponderati, sembra sempre sull’attenti. Ha scarpe marroni, un paio di jeans, la felpa con cappuccio di Baci e Abbracci, che fa molto primi Duemila, e un giacchino smanicato verde acido fluo. L’armocromista della Schlein potrebbe avere molto da ridire ma lo stile is for boys mentre i militari sono pragmatici (Vannacci, nel corso delle prossime ore, ripeterà varie volte di esserlo). Spoiler: essere un militare, nel caso di Vannacci, è la chiave di tutto, di quello che ha fatto finora e di tutto quello che d’ora in poi farà; è ciò che spiega ogni cosa e che tutti (dai vari opinionisti, ai commentatori fino ai nemici) non considerano. Peggio: sottovalutano.

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5. Siamo pronti per alcune foto al generale. Lui si toglie la felpa e si mette una camicia blu a pois bianchi. Vannacci e Micalizzi si fiutano e si piacciono: entrambi frequentano le guerre da diversi anni. Per puro caso non si sono mai conosciuti, ma scoprono di avere diverse amicizie in comune. Il set viene allestito nell’ingresso, vicino a un sarcofago egizio di due metri e trenta. «Qui dentro c’ho messo il mio ex marito» dice Michela a un certo punto. Mi guardo in giro. La sua casa è piena di foto e quadri che la ritraggono in ogni posizione e con qualsiasi espressione: Michela seria, Michela che ride, Michela femme fatale, Michela di spalle, Michela euforica. Ogni tanto vengono a farci visita i suoi cani, uno è un volpino cieco da un occhio. Io scherzo, lo chiamo “Er cecato”, rubando il soprannome al peggior criminale di Roma, il fascista Massimo Carminati. Ma la sua storia è davvero tremenda. «Eh, considera che l’ho portato a tosare e quando sono tornata a prenderlo aveva perso l’occhio sinistro». Mi faccio il film che il tosatore, per errore, con il rasoio gli abbia portato via pure la pupilla. Una scena splatter ignobile. «Ma no» fa Michela. Già, la realtà è sempre più spaventosa della fantasia. «Quel rincoglionito del tosatore l’aveva legato male, il guinzaglio lo stava strozzando e per la pressione gli è scoppiato l’occhio». I miei neuroni vanno in tilt: penso a Gabri il personal che strozza la tipa della sera prima, guardo il volpino che scodinzola e mi scappa una risata. Poco dopo ci spostiamo nel salotto per terminare il servizio fotografico e il citofono suona: entrano due agenti della Digos. 
   Ne approfitto per rivolgere la prima domanda al generale: «Cosa si prova a essere considerato il male assoluto? A diventare la causa di proteste e manifestazioni ovunque vai e a essere l’obiettivo di cori, offese e risentimenti?». Vannacci si avvicina: «Hai due scelte: o ti fai travolgere dall’onda. O la cavalchi». Torno indietro un momento: la gente sottovaluta il fatto che sia un militare perché in pochi sanno che Vannacci ha combattuto in Ruanda, Costa d’Avorio, Somalia, Iraq, Afghanistan e altri posti dove la vita conta meno di un pezzo di carta. Solo che c’è dell’altro. Lo ha fatto pure da incursore, quindi in reparti da missioni al limite del possibile, quelle dove non sai se torni a casa però sai che, anche in caso di successo, nessuno ti riconoscerà niente e nessuno farà risuonare il tuo nome in pubblico. Solo gloria, zero fama. Insomma, a uno abituato a tutto ciò, non importa affatto di un giornalista col papillon che gli dedica un editoriale di critica né di qualche ragazzina con la kefiah e il pugno alzato a intonare un coro contro di lui. Semplicemente Vannacci pare divertito e affascinato dal circo in cui è stato catapultato. Intanto qui abbiamo finito, dobbiamo andare. La Digos scorterà la parata delle nostre auto fino al teatro. 

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Vannacci è impeccabile. Il suo linguaggio del corpo lo tradirà solo due volte: quando gli chiedono se ha mai ucciso e quando parla dell’entrata in politica

6. L’Astra è il teatro comunale di Vicenza ed è bastato comunicare che oggi ci sarebbe stata la presentazione del nuovo libro di Roberto Vannacci per creare il caos: interpellanze, lettere di protesta, l’ANPI ha stilato un comunicato e i centri sociali hanno promesso un corteo di protesta. Eppure davanti all’entrata, Vannacci firma copie, rilascia interviste, è perfettamente a suo agio da quasi un anno nei panni dell’uomo del momento. Sempre più gente si va a sedere o resta direttamente fuori aspettando un autografo o un selfie. Spunta pure un sosia di Vasco Rossi che fa il paio con il sosia di Bugo che mi prende da un braccio e mi indica un panzone dai capelli bianchi con la bandiera della Russia sulla t-shirt e la croce di San Francesco pendente sul petto. «Lo hai riconosciuto?» mi fa il sosia di Bugo. «È Marco Zanasi». Ora: se ascolti tutti i giorni La Zanzara su Radio24 sai di chi si tratta. Io non lo sapevo. Eccolo spiegato: Marco Zanasi è un pazzo. Un fervente cattolico sostenitore di Putin convinto che la terra sia piatta e gli alieni ci rapiranno. «Santa madre Russia sarà l’Europa e ci salverà» mi dice. «Perché l’Europa attuale è una cloaca di delinquenti e servi al soldo della finanza e di quelli di Davos.». Mentre parla, sputa e gli viene un po’ di bavetta. «Macron, la paccottara nostra (traduzione: la Meloni), tutta gente che vuole la morte del cristianesimo, ma il cristianesimo è in mani salde non ti preoccupare, le mani di Putin». A posto siamo.
   Faccio qualche domanda in giro e le risposte sono sempre le stesse: «Il generale ha avuto il coraggio di dire ciò che tutti pensano e nessuno può più sostenere in pubblico per colpa del politically correct che ci hanno imposto». Ovvero che gli omosessuali sono una minoranza e non devono chiedere più diritti rispetto agli altri. Ma anche che ci deve essere un tetto alla presenza degli stranieri nelle classi e altre sue uscite grazie alle quali ha ricevuto valanghe di insulti e accuse di omofobia, sessismo, istigazione all’odio. Proprio mentre sto intervistando una signora con Il coraggio vince in mano, li sento. Il retro del teatro si affaccia su un canale e proprio sulla riva opposta sono arrivati circa duecento manifestanti con striscioni e fischietti. Tutti contro Vannacci e l’evento. Un elicottero vola sopra le nostre teste, la polizia corre verso il bordo del fiume e Michela mi spiega che non ci sono ponti per superarlo. In altre parole: non ci dovrebbero essere problemi di contatto tra agenti e manifestanti. Già, peccato che due di questi si sono organizzati per arrivare da questo lato con un gommone, tra gli applausi generali dei loro compagni. Scesi dal gommone e risalita la sponda, la polizia li accompagna ad appendere uno striscione. Vannacci non fa un plissé, non si gira nemmeno a guardarli. Lo ripeto: ricordiamoci che quest’uomo ha rischiato la vita diverse volte, una delle quali proprio in Costa d’Avorio dove era stato circondato da un gruppo di ribelli armati. Non sa nemmeno lui come ha fatto a uscirne vivo. Eppure ora eccolo qua. 

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7. Nel frattempo il teatro si è riempito. Michela Morellato prende il microfono, dà la parola al sindaco del comune di Gallio, che ha sponsorizzato l’evento, poi annuncia Giuseppe Cruciani. I presenti sono tutti in piedi e Cruciani passa in mezzo alla folla osannato come un giocatore dell’NFL dopo aver vinto il Superbowl. Tocca a Vannacci. Parte la musica. Rock’n’roll part 2 dei The Glitter Boys. Michela annuncia il suo ingresso ed è allora che la gente impazzisce. Il generale scende le scale senza dare il cinque a nessuno, con lo zainetto sulle spalle e la smanicata verde acido fluo sotto braccio. Mhm, sull’epica dobbiamo migliorare. Eppure forse è proprio questo suo rifuggire dalla celebrità che lo fa apprezzare ancora di più da quella che, una volta, era definita la classe media. Cerco riparo nel backstage del palco e resto sorpreso scoprendo che l’addetto ad aprire e chiudere la porta del dietro le quinte è il filosofo allievo di Fusaro. Da qui assisto a Cruciani che incalza Vannacci. Cruciani è molto abile e tocca tutti gli argomenti più scivolosi. Ma il generale risponde colpo su colpo: «La popolazione non eterosessuale è il 3,4 percento. Perché devono dettare le agende dei Paesi?». E giù applausi. «Il fatto è che c’è una precisa strategia di imporre la propria lobby. Per fare un film con Netflix devi metterci i gay. In tv ci devono essere i gay. O me lo invento io?». Ovazione. Poi ecco i suoi pensieri contro l’ambientalismo ideologico, le macchine elettriche, la precisazione sulla Egonu: «Non ho mai utilizzato termini discriminatori ma ho detto una cosa evidente a tutti, ovvero che i suoi caratteri non sono quelli tipici caucasici». E poi i trans, le guerre, le domande sulla candidatura con la Lega e così avanti fino allo scibile umano. Vannacci replica a qualsiasi domanda con un tono compassato che fa apparire posizioni forti più moderate. Nell’atteggiamento è sempre impeccabile. Tranne in due occasioni. Una adesso, l’altra mentre lo intervisto a fine cena. Ora a colpirmi è la sua reazione alla domanda: «Hai mai ucciso?».  Io mi trovo nel backstage, posso soltanto vederlo di spalle. Non so che espressione stia facendo eppure, da dietro, mi accorgo che mentre Cruciani formula la domanda il collo del generale scatta all’indietro. Quasi accusasse il colpo. Poi, con la mano libera dal microfono, la sinistra, gratta la poltroncina su cui è seduto. Un chiaro segno di nervosismo. Dal linguaggio del corpo non avrei dubbi: sì, a Vannacci è capitato di uccidere. «Queste sono cose a cui non posso rispondere». Ecco tutto ciò che dice. È un militare. 

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Vannacci non solo è un militare. Ma è anche un incursore. «E gli incursori dicono: quando puoi mangia, non sai se mangerai domani»

8. Passa un’ora e mezza. Dopo le domande serrate, tocca al pubblico. E il filosofo allievo di Fusaro diventa valletto e porta il microfono di fila in fila, di poltroncina in poltroncina. Che brutta fine che ha fatto fare alla filosofia. Il primo che prende la parola si definisce uranista. E che è? «Vedi» dice Vannacci. «Ci siamo dovuti inventare un nome inglese per non essere offensivi: gay. Qualsiasi altra definizione è bannata. Anche uranista». Ok, come sinonimo di omosessuale non l’avevo mai sentito. Un tizio chiede al generale se ripeterebbe la frase che Mussolini è uno statista. «Certo» risponde lui, deciso. «Anzi ritengo che chi l’ha interpretata in maniera contraria sia in malafede. Non ho detto che è stato un bravo statista. La parola statista definisce una persona che ha occupato il suo ruolo. Anche Stalin è uno statista». Attenzione: Vannacci, consapevolmente o no, ha appena fatto un’operazione per nulla banale. È una rivendicazione anche sulla lingua italica: il suo metodo di affidarsi all’etimologia (in questo caso come in altri) è un modo per richiamare di continuo le nostre origini e la nostra identità. E poi prosegue: «A dirla tutta, Mussolini non si è preso il potere con la forza. Nel 22 gli è stato chiesto di formare il governo dal Re. Quindi possiamo discutere anche sul fatto che si attribuisca a Mussolini la parola dittatore. La dittatura è assunta con il colpo di Stato, non è il caso del fascismo». Mi vengono in mente Putin, Orban, Erdogan. Anche loro sono stati votati. Vannacci sta dicendo che questi tre statisti, appunto, hanno preso ispirazione da Mussolini? E che quindi era tutto regolare? Nel frattempo, nelle pause tra domande e risposte, si avvertono i cori dei manifestanti fuori. Un signore anziano punta il dito verso Vannacci. «Lei avrà la responsabilità di quello che succederà» urla, poi esce dalla sala tra i fischi di tutti gli altri. L’ultimo ad afferrare il microfono è Antonio Pappalardo, un personaggio quanto mai folcloristico anche lui noto ai zanzarosi, gli ascoltatori de La Zanzara. Da ex leader del maggiore sindacato dei Carabinieri difende Vannacci dagli attacchi del ministro alla difesa Crosetto. Scatta un applauso e la presentazione finisce. Il generale si sposta nell’atrio avvicinandosi a un banchetto pieno di copie del suo libro che, una a una, si mette a firmare. Io vado al bar, dove ritrovo Gabri il personal, Gabri il fotografo e l’assistente di Gabri. E mentre Gabri il personal mi spiega di aver conosciuto un’amica di Michela niente male, osservo Vannacci: sta siglando autografi circondato da pensionate impellicciate, quarantenni calvi, signore con il vestito da sera, anziani con gli occhiali, la gobbetta e i giacconi marrone e pure qualche giovane con il trench nero e la barba incolta. Insomma circondato dal popolo, dalla gente comune, dalla classe media. Ed è impossibile non pensare che, in un mondo parallelo, in uno degli universi possibili, tra cinque anni o chissà, quest’uomo sarà premier. Può restare un’immaginazione, certo, ma se succederà, essere qui, oggi, è una di quelle esperienze che i presenti ricorderanno con la stessa enfasi e lo stesso stupore di chi era ai concerti di Vasco nel 1980: io c’ero, ho visto l’inizio. E ci renderemo conto che, come sempre, dentro l’inizio c’era già tutto. 

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9. Si va a cena nel centro di Vicenza. Nella taverna del ristorante Angolo di Palladio si sono già formate due tavolate. A sinistra, il tavolo reale. Spalle al muro ci sono: Giuseppe Cruciani nell’angolo in fondo; una mora che passerà tutta la sera a fare sorrisini di circostanza a sinistra e a destra a seconda che parli Cruciani o Vannacci; Vannacci stesso; un uomo paonazzo dai capelli rossicci a cui Cruciani, da lontano, mi fa segno di prestare attenzione. Poi compare l’accompagnatrice di Pappalardo, una signora che non so di dove sia esattamente, secondo me moldava, dagli occhiali firmati (Gucci), l’abito firmato (Valentino), la borsa firmata (Louis Vuitton), le scarpe sicuramente firmate (purtroppo in questo caso il brand non era smaccatamente visibile e quando gliel’ho chiesto mi ha spiegato che non ne aveva idea). Accanto a lei, Pappalardo stesso con i suoi baffi copiosi e gli occhi sempre vispi. Davanti a loro il sindaco di Gallio, Michela Morellato, suo marito e non so chi altro. Alla nostra destra, invece, il tavolo dei parvenu. Rivedo Bugo, gli amici di Bugo, Marcello, un amico di Michela, giornalista esperto in criptovalute dal sorriso sfingeo (nel senso che pare colto da paresi), il filosofo valletto e una ragazza in vestitino floreale dalla capigliatura pomposa che da come sorride al nostro arrivo intuisco sia la nuova amica di Gabri il personal. A capotavola ecco Marco Zanasi, con la zeppola di capelli grigi, lo sguardo fiero e corrucciato. Qui c’è posto anche per noi. 
   Cruciani viene da me e mi sussurra: «Hai visto quello che ti ho indicato prima? Sai chi è?». No, non lo so. «È Stefano Valdegara, Valdigamberi, Valdicazzi. Insomma, è l’unico politico italiano ammesso a fare da osservatore alle ultime elezioni presidenziali in Russia». Mi si cristallizza un ragionamento: Vannacci è stato addetto militare a Mosca per due anni, espulso dalla Russia un mese dopo l’invasione dell’Ucraina, nel maggio 2022. Scrive il libro, dove sostiene delle posizioni molto vicine all’ortodossia cristiana tanto amata da Putin. Il libro esplode, nasce il fenomeno mediatico e la sua recente presenza a Mosca diventa un caso. Il quotidiano La Stampa rende pubbliche le indagini sulle frequentazioni di Vannacci (think tank e consessi) piuttosto chiacchierate. Lui nega e rilancia che sono stati proprio Putin e il ministro degli esteri Lavrov a spingere per allontanarlo. Poi però cita spesso il politico rossobruno Marco Rizzo, che a sua volta cita Dugin, l’ideologo di Putin, viene accostato alla Lega, che nei rapporti con la Russia è il partito più esposto, e stasera è seduto al fianco di Stefano Valdegamberi, questo il nome corretto. Una coincidenza? Ovviamente sì, ma di Valdegamberi voglio saperne di più: lo raggiungo e mi presento. Valdegamberi è consigliere in Veneto, parla velocissimo. Impossibile fermarlo. Mi fa un pippone in cui, tra il sottofondo delle persone che chiacchierano e il tono della sua voce, narcotizzante, distinguo appena alcune parole chiave: Crimea, dittatura, Tudesia, elezioni. Torno al mio posto quando arrivano le prime portate. Guardo nel piatto del generale (ha scelto il persico con le verdure) e poi gli anticipo che finito di mangiare avrò bisogno di rivolgergli delle domande. Vannacci, gentilissimo, mi congeda: «A dopo». 

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Zanasi show durante la cena

10. E qui, carissimi, parte lo Zanasi show. Basta fargli una domanda: «Ma tu preghi?». Il valletto allievo di Fusaro prova a portare la discussione su un concetto nobile con la sua “erre” moscia: «Ah, come diceva Hegel la preghiera del filosofo è il pensiero». Chissà come mai la sua annunciazione non ha presa. Ne ha molta di più Zanasi. È un crescendo. «La terra è piatta se no quando da Vicenza vado in Puglia dovrei scendere no? Dov’è la curva?». Lo carico: «E la finanza mondiale?». Si scalda: «Gli Ashkenaziti! Gli ebrei! I Rotschild!». «E il Papa?» insisto. Si mette a urlare: «L’ordine mondiale! Il demonio! La pedofilia!». «E l’Ucraina?». Impazzisce. Sputa sul baccalà che ha ordinato e sui piatti dei vicini perché adesso è veramente troppo: «Cocalezski è un marcio genocida putrefatto. I soldati ucraini feriti vengono sedati, gli vengono tolti gli organi. È tutto vero!». E giù a elencare nomi assurdi di squartatrici tedesche. Pappalardo e Cruciani si avvicinano per calmarlo, ma Zanasi è incontenibile, ancora e ancora, sempre di più. Si alza di scatto, il coltello che ha in mano se lo appoggia sulla punta della lingua, parte verso il tavolo di Vannacci urlando: «Generale!!!». È un grido di aiuto, il suo. Per lui Vannacci è l’ultima speranza, dopo di lui solo una conquista di Putin potrà salvarci dal degenero morale, vaccinale, nazitecnocratico a cui siamo altrimenti condannati. Cruciani prova a fermarlo e in qualche modo ci riesce. Zanasi abbraccia Valdegamberi e grida: «Slava Russìa!». A quel punto si rimette a sedere per finire di mangiare. Bofonchia, so che sta per ripartire quando commette l’errore decisivo. Cita Andy Rocchelli, il fotografo morto nel 2014, ucciso dai militari ucraini. Gabriele Micalizzi mette le mani sul tavolo: «Non fare quel nome» dice con tono fermo. Rocchelli e Gabri erano amici: stesso collettivo fotografico (Cesura), notti e giorni passati insieme. È stato proprio Gabri ad accompagnare la famiglia di Andy in Donbass per il riconoscimento del corpo. Impossibile per lui stare a sentire le stronzate di un terrapiattista. Però Zanasi continua a parlare e fa il nome di Andy una seconda volta. Gabri, stavolta guardandolo e alzando la voce, ripete: «Non fare il nome di Andy Rocchelli». Finalmente Zanasi capisce cosa gli conviene fare. E si cheta. Fine dello show.

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Vannacci: «Potete darmi una foto per un manifesto?».
Quindi si candida? «No, va bene, non si preoccupi»

11. Terminata la cena è il momento dell’intervista al generale. Molti sono già saliti a fumare o a bere gli ultimi drink, chi è rimasto si mette dietro di me e assiste all’intervista. Vannacci è solo con le spalle al muro. Ha uno sguardo accogliente, il sopracciglio destro rialzato. E proprio in questa sessione di domande il suo linguaggio del corpo lo tradisce per la seconda volta. Gli chiedo: alla presentazione di oggi, ha detto che c’è una strategia per farci, in qualche modo, abituare all’omosessualità. Mi può spiegare meglio? «Ma non è che lo devo spiegare io. Basta leggersi il libro After the Ball di Marshall Kirk e Hunter Madsen. Sono due persone estremamente acculturate, uno è uno psichiatra, l’altro è un esperto in comunicazione, insieme spiegano la strategia del comparto non-eterosessuale per i prossimi trenta, quaranta, cinquant’anni. Sembra un piano studiato da un generale: una strategia operativa articolata e dettagliata per raggiungere l’obiettivo di abituare la società all’omosessualità. Il primo passo è proprio provocare la desensibilizzazione, cioè inondare il mondo di immagini omosessuali per rendere naturale, normale, qualcosa che invece è marginale».  
   Da qui si sviluppa il Vannacci pensiero sullo sfaldamento della famiglia («che è quella formata da uomo, donna e figli, il resto chiamiamole unioni») e i suoi scopi fondamentali: procreazione ed educazione; sui giovani che hanno grossissimi problemi e «non crescono più con la consapevolezza che la vita è difficile, selettiva e che bisogna imparare a lottare per i propri diritti». So già che non mi risponderà, ma glielo domando lo stesso:  si candida? entra in politica? Ma è proprio qui che noto una differenza notevole. Perché Vannacci cambia modo di parlare, modifica i ritmi e la scelta dei vocaboli, il linguaggio diventa più forbito. È già un politico. Glielo faccio notare. Lui nega. Ma è talmente evidente che non insiste. Allora gli faccio: chi è il ministro degli esteri del suo governo ideale? Lui alza il sopracciglio. Sorride: «Lo sai come si mangia un elefante? C’è un solo metodo, sai qual è?». No. «Un boccone alla volta. Un pezzettino alla volta». Questa è una dichiarazione di intenti. «No, dai». Insisto: ciò che ignora Salvini è che lei è un incursore. E il modus operandi degli incursori è entrare e piano piano prendersi tutto. «Esagerato! Gli incursori sono pigri per definizione. Dicono sempre: quando puoi mangia, non sai se mangerai domani».

12. Quando puoi mangia. E dall’onda ti fai travolgere o la cavalchi. Due atteggiamenti da battaglia. Vannacci è un militare. Lo ripeto per l’ennesima volta: va sempre ricordato. Gabri il personal si avvicina e mi fa: «Mentre lo intervistavi l’ho studiato». Poi si ferma, e mi guarda con il sorrisino di chi ha capito qualcosa sconosciuta ai più. E quindi? chiedo. «È sempre stato fermo, immobile. Muoveva solo le mani. Tranne quando avete parlato della sua entrata in politica: improvvisamente ha cominciato a far ballare le gambe. Fremeva. Non vede l’ora. E questo lo agita». Esatto: il linguaggio del corpo lo ha tradito per la seconda volta.
   Oramai siamo fuori dal ristorante. Michela Morellato invece è in paranoia, gira tra i vari gruppetti di persone a chiedere: «Tu hai pagato? Tu hai pagato? Tu?». Pare che qualcuno si sia fatto fuori troppi cocktail rispetto a quelli dichiarati. Piano piano vanno via tutti. Zanasi è preoccupatissimo che lo lascino a piedi e tallona Bugo. Il filosofo valletto e il manager mulatto condividono la stessa auto. Invece Cruciani esce di scena senza salutare come fanno le star; Pappalardo e accompagnatrice dispensano strette di mano e marciano verso nuove sfide. Gabri il personal col suo sorrisetto mi raggiunge. «Oh, io mi sa che vado. Mi accompagna la mia nuova amica in hotel». Tutto da copione. Michela a colpi di tacchi sui sanpietrini si allontana e ci diamo appuntamento telefonico al giorno dopo. Restiamo soltanto io, Gabri il fotografo, l’assistente di Gabri e, complice il fatto che dorma in un appartamento sopra il ristorante, Roberto Vannacci. Non l’ho registrato, quindi ciò che segue è ciò che mi ricordo della nostra chiacchierata fino alle due di notte.

13. In realtà è stato un dialogo, ma lo riporto come flusso di coscienza di Vannacci. Il suo primo comizio ufficiale da candidato alle Europee. Il generale indossa il suo giacchino verde acido fluo smanicato per ripararsi dall’arietta e si esprime con un tono della voce basso. Solo adesso sento in modo più spiccato la sua parlata viareggina, una cadenza toscana che contiene però già la durezza della Lunigiana. «Mi hanno dato dell’estremista. Quello più a destra della destra della Meloni. Io faccio ragionamenti di un certo timbro, di una certa area, non c’è dubbio, eppure, secondo me, sono ragionamenti ovvi, banali. Mi hanno dato del fuori di testa perché sono un incursore. Ma non sanno che casomai gli invasati sono i paracadutisti; l’incursore invece deve avere una mente lucidissima, deve sfruttare la velocità, l’adattamento e soprattutto sa che non può ripetere la stessa azione due volte. Quindi, o va bene la prima, o sei morto. Per questo devi affidarti ai singoli e non alla squadra. Infatti gli incursori in tutti gli eserciti del mondo sono odiati, ne fanno parte ma vengono vissuti come un corpo estraneo. In un reparto di fanteria tu hai bisogno del gruppo, della massa pronta a combattere. Invece in un reparto di incursori è esattamente l’opposto: si esalta l’individualità al posto dell’unità, il talento personale al posto della massa. Per le missioni servono poche persone in grado di compiere azioni folli in modo lucido. Ne ho fatte alcune dove eravamo soltanto in due: io e un altro che aveva il tornio in cameretta e faceva gli esplosivi a casa, vietatissimi, però cosa fai, glielo proibisci? Oppure ho lavorato con quello che sparava in caserma con il silenziatore per azzerare l’arma. Cosa gli fai, rapporto? Impossibile, perché in missione sai che ti salverà la vita. Si chiama pragmatismo. E io sono seriamente convinto che la popolazione accetti di più un ragionamento pragmatico, realistico, piuttosto che promesse inutili. Le promesse sono il fallimento della politica. Vi daremo più pensioni, vi daremo questo o quell’altro… No: meglio essere pragmatici, sinceri, strutturati». Arriva un giovane, camicia bianca e cappotto. Barba fatta. Poco meno di trent’anni. «Chiedo scusa dell’interruzione, volevo cogliere l’occasione per salutare. Grazie mille. Ho letto il suo libro». Vannacci risponde: «Ah, bene, bene. Piaciuto?». «Molto». Si fanno un selfie. «Grazie mille, è stato un piacere. Non ho mai votato ma se si candida lei per le europee, farò un’eccezione». Dicono tutti così. 
   Vannacci riprende: «Perché ho avuto successo? Il primo libro l’ho auto-prodotto, era pieno di refusi, un libro fatto per gli amici e gli amici degli amici. È stato pubblicato il 10 agosto, vendeva venti copie al giorno, quindi nel giro di sette giorni ero arrivato a centocinquanta copie. Poi, ecco il 17 agosto. Quella mattina me ne sono andato al mare con le mie figlie, ho lasciato il telefono a casa e, al mio ritorno, nel tardo pomeriggio l’ho trovato rovente. Bruciava. Avevo mille messaggi su whatsapp, chiamate su chiamate. Poi mi hanno telefonato dallo Stato Maggiore. Era uscito un articolo di Mattei Pucciarelli su Repubblica, a ruota Aldo Cazzullo sul Corriere. I titoli erano: cari omosessuali, non siete normali; le sparate del generale su immigrati e gay. Il mio faccione in prima pagina. Sapete quanto ho venduto il 18 agosto? Diciassette mila e ottocento copie. Il 19 erano quindicimila, il 20 altre quattordicimila. Dal 17 al 25 agosto ho fatto cento mila copie. Su eBay il libro veniva venduto a 100 euro. Il 27 agosto mi ha chiamato un dirigente di Mondadori e mi ha detto: “Monitoriamo le vendite di qualsiasi pubblicazione in Italia dal 1952 e un fenomeno del genere non è mai esistito, non riusciamo a spiegarlo”. Il motivo? Il 19 agosto ho trovato i giornalisti di Rete Quattro nel giardino di casa mia e mi hanno domandato: “Generale, allora chiede scusa?” E io: “No!” La giornalista ha fatto un salto. Il non aver mai fatto un passo indietro e, anzi, l’aver rincarato e sostenuto – ancora oggi – quello che ho scritto, be’, ha dato coraggio alle persone che la pensano come me, ovvero il novanta percento degli italiani. Purtroppo ormai nessuno si permette più di sostenere ovvietà madornali perché ha paura di essere additato come omofobo e razzista. Io ho tenuto il punto e questo non accade più in Italia. Perché ciò che dico è logico. Invece, con la scusa che non siamo diversi uno dall’altro, vogliono renderci tutti esseri uguali, intercambiabili, indistinguibili: il pensiero unico si basa sull’eliminazione della diversità. Non si può più dire che lui è grasso, che lei è alta, che un bambino è più intelligente, più preparato, più svelto di un altro. Perché offendi il prossimo. Non è vero. Vogliono privarci della nostra identità, capite? Questo è il disegno. Un tentativo molto muscolare di distruggere la società occidentale, da parte di chi ci vuole tutti lobotomizzati e manipolabili. Non so chi sia, ma sicuramente c’è un discorso consumistico dietro. E di controllo. Quattro individui presi singolarmente consumano di più di quattro componenti di una famiglia. In più gli individui ridotti ad automi sono ininfluenti, non possono reagire e sono intercambiabili». Si avvicinano due ragazzi. Anche loro hanno sicuramente meno di trent’anni. Altro selfie. E anche loro gli dicono: «Sei l’unica speranza».
   Vannacci ride. E conclude: «Vedete questi ragazzi? Sono persi. Non sembra ma lo sono. Io che sono stato in Russia so che quella nazione si è proposta come l’unica preservatrice della cristianità europea, che è il modello fondante della civiltà occidentale, ovvero quella greca, romana, giudaico cristiana e cristiana. Non a caso il Papa, un mese fa, ha detto che l’ideologia gender è uno dei flagelli più grandi dell’umanità. Si è svegliato tardi. Le mie figlie hanno dieci e dodici anni e se vai nelle scuole ti accorgi che in Italia quasi più nessuno studia il Risorgimento, Manzoni e la formazione dell’Italia. Ed è sconvolgente, si stanno distruggendo le nostre origini». Ci salutiamo. Mentre torniamo all’auto mi guardo intorno: siamo in piazza dei Signori, con le due colonne erette tra il Quattrocento e il Seicento, il palazzo del Monte di Pietà e soprattutto, laggiù in fondo, la basilica Palladiana. La storia, le tradizioni, le radici. Vannacci ha ragione? Allora, cosa penso del generale?

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14. Quando rientro in albergo le domande stanno a zero. Nel senso che il mio cervello viene occupato completamente da ciò che ho davanti. Alle due e trenta del mattino, nella hall dell’hotel, con i divanetti in velluto, i tavolini tondi di design, gli specchi e le vetrate che danno sul parcheggio, non c’è nessuno. A parte Gabri il personal e la sua nuova amica. Non puoi non vederli, lì in mezzo alla sala, davanti agli ascensori. E non puoi non notarli perché Gabri il personal è a petto nudo e lei a cavalcioni su di lui. «Ma non potevate salire in camera?» chiedo. «Ehm, bro, poi ti spiego». Certo, come no. In ascensore io, Gabri il fotografo e l’assistente di Gabri abbiamo le lacrime dal ridere. La mattina successiva mi ritrovo con Gabri il personal, nella sala colazioni. «Eh bro, voleva toccare il mio petto» inizia a spiegarmi mentre taglia una fetta di crostata alle noci. «Allora mi sono tolto la maglia, poi però mi ha detto che non faceva sesso da due anni, che non era in forma, che dagli uomini è rimasta delusa, che è stata trattata male, insomma problemi, e allora non voleva salire subito in camera. Io ho insistito ma poi che ti devo dire…». Tutto incredibile. Tutto bellissimo.
   Nel ritorno in auto ripassiamo da Compton, poi prendiamo l’autostrada, Gabri il fotografo guida sempre come se stessimo scappando da un sito appena distrutto da un attacco nucleare. Riviviamo i dettagli della giornata di ieri. Ridiamo degli incontri e delle situazioni vissute. Elenco ciò che ho pagato della cena e ci rendiamo conto che nella lista mancano: un whisky torbato e una grappa barricata presi da Gabri il fotografo, due costolette (che i due Gabri hanno ordinato mentre intervistavo Vannacci), due tiramisù, quattro calici di vino e un bigolo al ragù. Totale della cena non dichiarata: circa duecento euro. Povera Michela. Poi i conti li facciamo in tasca al generale e raggiungiamo la sicurezza che tra copie vendute su Amazon, copie vendute in libreria, anticipo e percentuali sul secondo libro, ospitate varie in tv, in nemmeno un anno si può essere messo in tasca due milioni e duecento mila euro. Forse è troppo. Ci culliamo nell’idea che sia vero.

Il mio segreto? Non ho mai chiesto scusa per le mie frasi, ho tenuto il punto. In Italia non succede più. E ho dato coraggio alle persone come me, che sono il 90 percento

15. Siamo di nuovo al Picchio. Gabri il fotografo fuma l’ennesima Marlboro con le due dita maciullate dalle schegge dell’RPG e sorseggia un altro caffè macchiato al Sambuca, quasi fossimo sempre stati qui e avessimo vissuto solo un grande trip. «Allora, cosa pensi del generale?» mi chiede. Respiro. Lo guardo. E stavolta sono io a far partire il flusso di coscienza: «Penso che Vannacci sia una frattura. Tra quello che c’era prima e quello che c’è ora. Leggendo i suoi libri, ascoltando i suoi discorsi, ti accorgi che rimanda sempre ai tempi in cui i bambini giocavano per strada, il parroco prendeva a pacche chi diceva le parolacce e i genitori ne erano contenti perché era giusto così. Il generale accarezza la nostalgia di un passato dove ci rifugiamo perlomeno con il pensiero, per sicurezza, perché di questi tempi che stiamo vivendo ne capiamo sempre meno e ci fanno sempre più paura. Quindi la mia domanda è, ancora una volta: quello fuori dal tempo è lui? O effettivamente noi arriviamo da lì e lì vogliamo tornare? Altrimenti non si spiegherebbe il successo che ha e l’affetto che lo circonda. A ragionarci da questa prospettiva si spiegano anche le proteste, le accuse di fascismo, la voglia di mettere in scena una ribellione che richiama gli anni Settanta. La storia si muove a cerchi. Va avanti, poi torna indietro. Vannacci è un militare e, ancora di più, è un incursore: è abituato a essere solo contro tutti in missioni con l’obiettivo di ristabilire un ordine. Questa è la chiave. E ciò che governa le missioni, e il loro fine ultimo, è un pensiero fisso che lui tocca con mano come se fosse qualcosa di evidente e materiale, ed è alla base di tutto ciò che facciamo nella vita, nella nostra esistenza, nella nostra specie e nella specie di tutti gli animali: la sopravvivenza. Vannacci è un richiamo all’istinto primordiale, alla natura, alla conservazione e, appunto, alla sopravvivenza, un mondo con regole chiare e rassicuranti. Il generale parla alla prima corteccia cerebrale dell’essere umano. E questo funziona se fai l’oratore e lo scrittore. La questione è: può funzionare quando devi fare davvero politica? O anche lui finirà a essere solo un altro animale da circo?».

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L’autore di questo reportage fotografato da Micalizzi

16. Tre settimane dopo ricevo una telefonata da Gabri il fotografo. Vannacci gli ha appena chiesto uno degli scatti fatti a Vicenza: «Mi serve per un manifesto». Gabri il fotografo capisce e mi avverte. Il generale ha deciso, si candida. Penso di scrivergli, e qui noto che come frase del suo profilo su whatsapp ha una definizione che mi lascia interdetto: «Il cavaliere nero». Ma poi lo chiamo, chiedo conferma, lui nega. Allora gli spiego che una foto per la campagna elettorale non potrei fornirgliela, mentre se gli serve per un’altra ragione possiamo parlarne. «No, va bene, non si preoccupi, se non può, non può» risponde. La scelta è presa. 
   Sono in auto, da solo stavolta, mi ripeto la domanda: può funzionare da politico? Ed ecco che mi tornano in mente tre cose, solo tre, tra quelle che ha detto. La prima: Vannacci ha comandato forze speciali in missioni ad alto rischio, ha dormito in condizioni di pericolo, fino a tre ore a notte; per lui andare al parlamento Europeo può essere poco più di una camminata in un parco giochi in cui osservare l’assurdità umana. La seconda è una frase contenuta ne Il coraggio vince, questa: «Sono le modalità di coordinamento che ti consentiranno di portare a casa la pelle». L’ultima è la domanda che mi ha rivolto al ristorante: «Lo sai come si mangia un elefante?». Vannacci ha scritto un libro, grazie al libro è diventato un caso mediatico. Poi ne ha scritto un altro che è il suo programma politico. Ora si candida. Domani dove vuole arrivare? Un elefante si mangia un pezzo alla volta. Un pezzo alla volta. 

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Hanno collaborato: Giorgio Dirindin, Jacopo Tona, Giulia Toninelli, Barbara Gozzi, Cinzia Giacumbo (art direction)
Si ringraziano: Cosimo Curatola, Dario Carfì, Daniele Piovino, Giuseppe Caggiano, Ottavio Cappellani, Niccolò Fantini