C’è una vicenda che dovrebbe essere tenuta a mente da tutti coloro per i quali il caso Cospito non è il solito teatrino di Pulcinella dove esibirsi a favore di telecamere (la comica coppia di FdI) ma l’occasione per gettare uno sguardo, almeno, in quel […]

(di Antonio Padellaro – Il Fatto Quotidiano) – “Quanto alla situazione carceraria sarebbe bello se tutti (anche gli intellettuali e gli artisti che sfornano appelli) si occupassero non solo di Cospito ma anche degli 84 suicidi del 2022, degli oltre mille tentativi di suicidio sventati e degli innumerevoli episodi di autolesionismo, dati che sono la cartina di tornasole della complessità del carcere”.
Gian Carlo Caselli sul “Corriere della Sera”

C’è una vicenda che dovrebbe essere tenuta a mente da tutti coloro per i quali il caso Cospito non è il solito teatrino di Pulcinella dove esibirsi a favore di telecamere (la comica coppia di FdI) ma l’occasione per gettare uno sguardo, almeno, in quel buco nero che è il sistema carcerario in Italia. Parliamo del “Pestaggio di Stato”, avvenuto il 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che è il titolo del libro inchiesta di Nello Trocchia. Quel pomeriggio 283 agenti della polizia penitenziaria, muniti di caschi e manganelli e alcuni a volto coperto, irrompono nelle celle e infieriscono per ore sui detenuti. “La prova del fallimento della struttura sociale e istituzionale del nostro Paese, l’abdicazione del sistema Giustizia”, scrive nell’introduzione Ilaria Cucchi. Trascorrerà quasi un anno e mezzo prima che il depistaggio costruito dall’amministrazione penitenziaria nel tentativo di respingere le accuse sia vanificato. Sarà infatti l’autore del libro a pubblicare sul sito del giornale “Domani” le immagini dell’infame aggressione estratte dal sistema di videosorveglianza del carcere. Solo allora il ministro della Giustizia Cartabia denuncerà “l’offesa e l’oltraggio alla dignità della persona dei detenuti” e anche “alla divisa della polizia penitenziaria”. La domanda è se, trascorsi altri venti mesi dal disvelamento di quella macchia indelebile, a quel “tradimento della Costituzione” si sia cominciato a porre un qualche rimedio. Per ora, dietro il polverone sollevato dallo sciopero della fame di Alfredo Cospito, non s’intravede altro che un furibondo scontro politico (più che umanitario) sull’applicazione del 41 bis (728 coloro che devono sottostarvi) e dell’ergastolo ostativo (1.259). Questioni importanti legate al giusto equilibrio tra sanzione, sicurezza e civiltà giuridica, ma che riguardano solo una minima parte degli oltre 57 mila detenuti nelle carceri italiane. Delle non-persone a giudicare dall’interesse quasi zero che la loro condizione suscita nel dibattito pubblico. Pensiamo agli 84 suicidi che hanno deciso il loro fine pena, con atto autonomo e definitivo. Ma che, tranne in rarissimi casi, non sono riusciti ad attirare l’attenzione sulla loro “vita di scarto” (Zygmunt Bauman) neppure togliendosela. Se non fosse per il capitolo che gli dedica Nello Trocchia, chi saprebbe, per esempio, qualcosa del detenuto Lamine Hakimi picchiato selvaggiamente a Santa Maria Capua Vetere e morto vomitando sangue? Per carità, nessun paragone con lo sciopero della fame dell’anarchico insurrezionalista di cui tutti parlano. Ma la sensazione che anche dietro le sbarre ci sia qualcuno che è più (o meno) uguale degli altri, questo sì.