Federico Cafiero De Raho

(Liana Milella – repubblica.it) – Secondo il deputato cinquestelle ed ex procuratore nazionale antimafia le norme sull’ergastolo ostativo sono più favorevoli ai mafiosi che non ai collaboratori di giustizia e questo provocherà la fine delle collaborazioni 

Ostruzionismo, in dirittura d’arrivo del decreto Rave, del M5S alla Camera. Ma Federico Cafiero De Raho non lo chiama affatto così. “Il nostro non è ostruzionismo. Stiamo solo cercando di risvegliare la maggioranza per evitare che demolisca un’importante legge antimafia dello Stato”. Non ha dubbi l’ex procuratore nazionale antimafia, oggi deputato del M5S, nonché vice presidente della commissione Giustizia. Parole di fuoco le sue contro il decreto Rave, soprattutto nel capitolo sulle nuove regole per l’ergastolo ostativo.

Il governo Meloni, con questo decreto, sta strizzando l’occhio alle mafie?
“Un fatto è certo. Il decreto non si inserisce affatto nel percorso seguito fin qui dallo Stato, dal 1982 a oggi, per garantire gli indispensabili strumenti legislativi scritti appositamente per contrastare Cosa nostra e le altre organizzazioni criminali. Il compito della politica è mettere a riparo i cittadini dalle mafie perché gli stessi cittadini da soli non hanno la forza di reagire”.

A quattro giorni dalla conversione del decreto l’ostruzionismo parlamentare è divenuto una via obbligata?
“Stiamo cercando disperatamente, con i fatti, di far rimeditare la maggioranza su temi che già nella discussione in Senato abbiamo messo in rilievo, sia in commissione che in aula. Abbiamo già spiegato che si tratta di questioni fondamentali per garantire la sicurezza dei cittadini e il contrasto alle mafie”.

E che succede se il governo risponde con la fiducia?
“Noi stiamo facendo il nostro dovere per evitare che questo governo approvi una legge dello Stato che chiaramente non si inserisce nel percorso seguito fin qui sin dal 1982. Quindi non parlate di ostruzionismo, ma della nostra volontà di spenderci con tutte le energie possibili perché ci sia un risveglio di coscienza e si cambi subito il decreto nelle sue parti pericolose”.

Qual è la “colpa” principale che vede nella nuova formula dell’ergastolo ostativo?
“La risposta è molto semplice. Lo strumento legislativo non deve creare dubbi. In questo caso nessuno deve pensare che la legge sia più favorevole di quella sui collaboratori di giustizia. Parlo di una legge che non deve favorire chi resta mafioso, rispetto a chi decide di passare dalla parte dello Stato. Invece il decreto purtroppo ha proprio questo problema, mentre il disegno di legge approvato alla Camera corrispondeva sostanzialmente alla nostra idea. Quando si ha a che fare con la mafia è fondamentale adottare leggi senza ambiguità”.

E dove stanno le ambiguità in questo decreto?
“Premetto che noi non vogliamo fare né ostruzionismo, né attività dilatoria, ma collaborare con la politica. Il decreto andava emesso, l’esigenza c’era, e tutti la riconosciamo. Ma nel decreto manca qualcosa, e non parlo del passaggio da 26 a 30 anni per poter uscire dall’ergastolo ostativo, questo è un fatto marginale. Il problema è che questa legge diventa un mezzo per far accedere i mafiosi ai benefici più di quanto non possano farlo i collaboratori di giustizia. Quindi il mafioso, che sa che può accedere comunque ai benefici, non collaborerà più”.

E questo, per lei, è un danno epocale alla legislazione antimafia? 
“Certo, perché l’immediata conseguenza è che ne deriverà la mancanza di collaborazione. Purtroppo già adesso il sistema non regge, per i collaboratori non c’è un euro, e non s’investe sul sistema di protezione. Tutti i detenuti sono consapevoli che diventare collaboratore determina grandissime difficoltà, tant’è che molti di loro, se potessero farlo, tornerebbero indietro. Le modifiche chieste al Senato da M5S non miravano a bloccare il decreto, ma a integrarlo”.

Che cosa ha chiesto il M5S?
“Il ragionamento è semplice. Se il mafioso rende dichiarazioni sappiamo che si è tirato fuori dal suo ambiente. La legge sui collaboratori chiedeva “il ravvedimento accertato”, e non la “revisione critica”, come invece è scritto in questo decreto. A Giovanni Brusca, giunto a un anno dal fine pena, il tribunale chiese il ravvedimento, un atto morale, per dimostrare che era diventato una persona completamente diversa rispetto alla mafia. E se c’è solo la “revisione critica”, ma non il “ravvedimento”, cioè non hai soddisfatto appieno le esigenze di giustizia riparativa, non puoi uscire dall’ergastolo ostativo. Tant’è che a Brusca viene negata la detenzione domiciliare”.

E voi avete chiesto alla maggioranza di parlare espressamente di “ravvedimento” e non di semplice “revisione critica”?
“Esattamente, abbiamo chiesto proprio questo. Gli irresponsabili qui non siamo noi, e da neofita della politica non capisco perché la maggioranza non accolga le nostre proposte giuste e non eviti gli errori. Noi abbiamo chiesto che il mafioso dica spontaneamente quali sono i beni di cui dispone, per equipararlo al collaboratore. Cioè di specificare tutti i beni posseduti o controllati, e tutte le altre utilità, e quindi versare il denaro frutto di attività illecite che sono state sequestrate. Se il pentito dice il falso, il suo programma di protezione decade. Invece, in questo decreto, le condizioni per il mafioso sono più favorevoli di quelle garantite al collaboratore. Per questo noi diciamo che il decreto si colloca per noi in un quadro di grande preoccupazione”.