Dalla Nuova Zelanda al Nord Europa, fino alla Spagna prende sempre più piede l’idea che lavorare 4 giorni anziché 5 porti benefici per tutti. Ma da noi prevale ancora il pregiudizio anti-divanisti

(di Rinaldo Gianola – tpi.it) – La settimana di lavoro di quattro giorni determinerà un rilancio e un rinnovamento dell’economia, con un impatto positivo sull’intera società. Stimolerà la produttività, l’innovazione, i salari, riducendo la disoccupazione e contrastando i movimenti populisti. Un percorso su cui possono convergere sinistra e destra.

Queste sono le valutazioni di un giovane economista, Pedro Gomes del Birkbeck College che nel suo libro “Friday is the new Saturday” (the History Press, 2021), spiega pregi e vantaggi della settimana di lavoro ridotta. Nell’epoca post-pandemia, delle innovazioni tecnologiche, dell’economia digitale e anche delle Grandi Dimissioni, bastano quattro giorni in ufficio o in fabbrica e la vita cambia. Almeno, si spera.

Nell’Ottocento le persone lavoravano sei giorni la settimana, con la domenica di riposo. Nel Novecento fordista delle grandi fabbriche sono stati i lavoratori con le loro lotte a conquistare in Occidente la settimana di cinque giorni. Anche i peggiori tra i padroni compresero che il weekend libero avrebbe favorito consumi e benessere.

Oggi, nel nuovo millennio, si prospetta un altro taglio dei tempi di lavoro. Sono soprattutto le imprese a proporre questa strada, quasi che fosse trasmigrata e mutata nella testa delle aziende l’idea, cara a una parte del movimento sindacale, di lavorare meno e lavorare tutti. Risparmiando molto, si potrebbe aggiungere.

È da un paio d’anni, in coincidenza con la pandemia, che ha preso corpo l’idea di tagliare la settimana lavorativa. Non si tratta di una semplice riduzione dell’orario discussa ideologicamente e qualche volta sperimentata in passato, ma di un approccio diverso ai tempi del lavoro e della vita individuale e sociale.

La pandemia, con le sue crisi sociali, sanitarie ed economiche, ha mostrato la potenzialità dell’innovazione digitale, dello smart working (una definizione, però, che ormai raccoglie troppe esperienze), tutte novità indotte dall’emergenza e diventate rilevanti nell’organizzazione delle imprese.

Questa metamorfosi è andata di pari passo con la possibilità- opportunità di ridurre la settimana lavorativa, un’opzione seguita da diverse società anche multinazionali, spesso con un management giovane e impegnate nei processi d’innovazione e di flessibilità “positiva”.

Nel nostro Paese si discute debolmente della riduzione o della compressione dell’orario di lavoro (cioè le stesse ore d’impiego concentrate in quattro giorni anziché cinque) per liberare un giorno in più. Intesa Sanpaolo, primo datore privato di lavoro in Italia, ha deciso di avviare il progetto della settimana corta su base volontaria escludendo i lavoratori degli sportelli, ma per ora senza il consenso dei sindacati.

La sensibilità delle nostre forze politiche sul tema non è molto accentuata, prevale nella società il pregiudizio che chi lavora meno o non ha voglia o è un “divanista”.

Però il mondo si muove. Dalla Nuova Zelanda all’Inghilterra è attivo un movimento di opinione chiamato “4 day week global” che preme sui governi affinché offrano un quadro legislativo adeguato alla novità. Spagna e Portogallo si stanno muovendo in Europa, dove esistono sistemi (Olanda, Danimarca, Norvegia) che accompagnano il taglio d’orario. Australia e Nuova Zelanda sono pratiche della settima corta.