(Ilaria Proietti – tpi.it) – Della sua vita politica si sa praticamente tutto: la militanza missina quando le risse e le bombe erano all’ordine del giorno, i rapporti a cavallo tra famiglia e affari con la dinastia Ligresti, il rigatone doppio petto che è la sua cifra da quando calca il palcoscenico della politica, la passione per l’Inter. Ma più di tutto la fama di impenitente nostalgico di B. nel senso della buonanima mussoliniana e non certo di  Berlusconi che l’ha pure sfanculato mandandogli di traverso, per via di una Ronzulli qualsiasi, l’elezione sullo scranno più alto di Palazzo Madama: il nuovo presidente del Senato Ignazio Benito La Russa è soprattutto l’uomo «che più rappresenta il cordone ombelicale con il Movimento Sociale Italiano e con la storia di quel partito, inclusa l’ispirazione fascista, già prima che diventasse Destra nazionale», come ha scritto Marcello Veneziani che senza sotterfugi e amnesie ha ricordato che sin da ragazzo, capelli lunghi e barba saracena, La Russa ha militato nella Fiamma, è stato l’avvocato che difendeva i ragazzi di destra a Milano, ha rappresentato la continuità con l’esperienza di Almirante e le sue radici, peraltro mai rinnegate. Per questo, per i nemici rimarrà sempre un vecchio arnese fascista (s’offenderà per vecchio arnese) e per gli amici un “patriota”, nemico acerrimo del politicamente corretto con cui talvolta gioca a mandare il sangue agli occhi degli avversari.

Proprio per questo, il nuovo ruolo di seconda carica dello Stato rende ancora più interessante il come sarà da grande ora che alla tenera età di 75 anni nulla è più precluso. «Mi pare di sognare», ha commentato commosso la sua elezione uno come Francesco Storace per significare che la parabola del suo antico avversario Ignazio, detto ’Gnazio per amici e camerati, è il segno che per la destra tutta è finita la lunga traversata nel deserto. Che è caduta insomma più della pregiudiziale K dei comunisti al governo, sì che La Russa e la stessa Giorgia Meloni, giurando sulla costituzione antifascista son già stati ministri, ma per grazia ricevuta un tempo dal munifico Silvio Berlusconi che li sdoganò: adesso invece, ballano da soli al ritmo di una marcia micidiale per la sinistra: in fondo la loro vittoria alle urne ha sancito come gli italiani ormai abbiano fatto pace al punto con il fascismo da simpatizzare anche con la sua versione caricaturale che sta tutto in un tweet: «Non stringete la mano a nessuno, il contagio è letale. Usate il saluto romano, antivirus e anti-microbi», La Russa dixit.

Una vittoria alle urne che vale doppia perché ha chiuso anche un altro cerchio, l’avvenuta pacificazione delle antiche correnti della destra sotto l’unico vessillo di Fratelli d’Italia. Testimoniata dalle parole dello stesso La Russa che dopo il successo aveva tenuto a dare notizia che Gianfranco Fini, con cui si era consumata una rottura politica che a destra era ancora una ferita sanguinante, aveva chiamato per complimentarsi. Ma più ancora lo testimonia la fotografia degli eletti di Fratelli d’Italia che ha riportato tutti a casa, o quasi. Ecco allora eletti Isabella Rauti accanto a Roberto Menia, gli Andrea Augello e gli Adolfo Urso e i Fabio Rampelli e tutti gli altri un tempo dispersi nella diaspora seguita al disfacimento di Alleanza Nazionale e ora di nuovo riuniti insieme alle nuove leve. Che se fosse vivo Pinuccio Tatarella, indimenticato ministro dell’armonia, chissà che direbbe, specie di lui, l’amico Ignazio già colonnello di An, capo di Destra protagonista e collante di una storia finita più volte in pezzi e poi rifondata nella nuova avventura di Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni alla guida. E lui nelle retrovie che contano a partire dalla Fondazione Alleanza Nazionale, la cassaforte delle destre che adesso sono una destra sola.

Anche da questo snodo è passata la pacificazione interna che, così come la rivoluzione, non è un pranzo di gala. L’organismo che come il partito ha sede in via della Scrofa, dove vige la regola del silenzio anche quando ci si scanna, «ha come scopo la conservazione, tutela e promozione del patrimonio politico e di cultura storica e sociale che è stato proprio, fino alla sua odierna evoluzione, della storia della destra italiana, e, segnatamente, del partito politico Alleanza Nazionale, oltre che dei movimenti e delle aggregazioni politiche e sociali, che ad essa hanno dato causa o contributo ideale»: vi siedono oltre a lui molti altri tra cui Maurizio Gasparri rimasto dai tempi della cosa comune del Pdl in Forza Italia ma suo gemello eterozigote, eppoi Gianni Alemanno, sodale antico di Francesco Storace che adesso è fuori dalla politica ma ha reclamato a lungo la Fiamma per la sua Destra, e Italo Bocchino che è direttore responsabile del Secolo e che si era opposto alla nascita della fondazione e al trasferimento ad essa del patrimonio di Alleanza nazionale.

Tenere insieme tutto questo popo’ di figure è stato per anni esercizio da acrobati per uno come La Russa che per presidiare l’eredità ha cercato di addomesticare anche Roberto Fiore e Castellino pure a rischio di rimetterci l’osso del collo: da vicepresidente del Senato li invitò a Palazzo Madama come si trattasse di due ospiti qualsiasi e sì che già prima dell’assalto alla Cgil per cui pochi mesi dopo finirono in carcere, avevano alle spalle una storia pesante, per Fiore una condanna poi prescritta per banda armata e associazione sovversiva, per l’altro forzanuovista Castellino, la sorveglianza speciale imposta dalla questura di Roma perché ritenuto soggetto pericoloso. Quando il caso era finito sulle colonne de Il Fatto quotidiano, La Russa aveva minimizzato dicendo che quell’incontro era un tentativo di sventare altre occupazioni di cui i due erano stati protagonisti, come quella della sede storica del Movimento sociale di via Livorno. E per risolvere quella ancora più scottante della prestigiosa sede di via Paisiello ai Parioli occupata da Forza Nuova per anni senza che nessuno riuscisse a sfrattarli. E che importa del vulnus istituzionale dei fascisti a Palazzo che poi, a vedere bene, mica li aveva fatti salire, perché l’incontro era avvenuto nel salottino attiguo all’ingresso.

Uno sfoggio di discreta faccia tosta, si dirà. O forse è più nobilmente quella abilità ad essere contemporanei al proprio tempo per resistere a ciò che è transitorio teorizzata da Tatarella, allegro fantasista della politica che ondeggiava tra furbizia e moti impulsivi. Tutte qualità che al maestro di Cerignola erano valsi i galloni di primo post fascista a Palazzo Chigi e oggi al siculo-milanese suo allievo La Russa quelli di seconda carica dello Stato. «Ignazio ha come Pinuccio una sensibilità per il prossimo, la cura per i rapporti personali, pratica l’ascolto dell’altro. Non è diplomazia ma una dimensione umana e popolare», ha detto di lui Angiola Filipponio Tatarella ricordando l’amicizia con il marito del neo presidente del Senato quando anche al mare a Taormina o a Rosa Marina in Puglia, tra un bagno e una partita a tresette, si lavorava alle prospettive future con l’idea fissa che gli italiani in fondo in fondo fossero tutt’altro che di sinistra. Tesi che La Russa ha fatto in tempo a vedere realizzata e non a caso nel discorso di insediamento al Senato ha voluto ricordare innanzitutto Tatarella, che sicuramente è stato politicamente più moderato di lui.

Chissà in futuro: intanto il neo presidente del Senato ha imparato, rispetto ai bollori della gioventù da contestatore ma pur sempre dell’aristocrazia missina, a coltivare un tratto bonario. Anche per questo, certo non solo per questo, persino alcuni avversari politici nel segreto dell’urna lo hanno aiutato a conquistare lo scranno più alto di Palazzo Madama, quando Forza Italia ha deciso di fargli mancare l’appoggio. La Russa ha incassato il colpo ringraziando chi nel centrodestra lo aveva votato e anche chi lo aveva fatto dai banchi dell’opposizione. Col piglio di chi, più che l’offesa del tradimento degli amici, ritiene impagabile il soccorso rosso pervenuto dal Pd, che mai potrebbe confessare di aver votato chi, come lui, si fa un vanto dei suoi cimeli fascisti.

Come ha ricordato pure The Guardian rispolverando un video di appena quattro anni fa in cui La Russa mostrava la sua collezione di bandiere nere, di orbaci Balilla, busti dell’infame capoccione ducesco di cui gli italiani sarebbero – parole sue – eredi avendo tutti chi più chi meno un nonno fascista quando il politicamente corretto imporrebbe di rivendicare solo i nonni impegnati nella lotta della Resistenza. Di certo nessun partigiano si ricorda nella famiglia La Russa. Al massimo l’unica pecora bianca era l’amato fratello Vincenzo nato e morto Dc, finito ingiustamente al centro di polemiche per la proposta poi bocciata di iscriverlo al Famedio, il pantheon dei milanesi illustri. Una polemica scoppiata negli stessi giorni in cui l’altro fratello, Romano, assessore alla sicurezza in Regione Lombardia era nella bufera a causa di un saluto romano in occasione del funerale del cognato, l’esponente della destra milanese Alberto Stabilini. Un saluto romano fonte di imbarazzo per Giorgia Meloni in piena campagna elettorale che ha fatto sbottare pure Ignazio: «Sono incazzato con lui», ma non per il gesto in sé, ma per l’ingenuità di farlo, ché la sinistra non aspettava altro.

Ma nella galleria di famiglia più di tutti è il patriarca Antonino ad aver segnato il percorso politico e quindi di vita di Ignazio La Russa, detto Nino, avvocato e dirigente d’azienda nonché ex segretario del Partito Nazionale Fascista, arruolatosi volontario in Africa durante la Seconda guerra mondiale, poi divenuto commissario provinciale di Paternò del Movimento sociale italiano fino a diventare senatore della Repubblica. Un’ascesa che ha corrisposto al suo approdo a Milano e ai legami al finanziere Michelangelo Virgilito e al compaesano di Paternò Salvatore Ligresti, entrato nei salotti milanesi proprio sotto l’ala di La Russa senior che gli presentò il numero uno di Mediobanca, Enrico Cuccia.

Un legame tra affari e politica ricordati in maniera poco amorevole dal “Barone nero” Tommaso Staiti di Cuddia che a La Russa oggi presidente del Senato rifilò un giorno anche quattro schiaffoni non metaforici: «La decisione di far diventare Gianfranco Fini segretario fu presa a Taormina in un albergo di Salvatore Ligresti, presenti il senatore Antonino La Russa, suo figlio Ignazio, Giorgio Almirante e Pinuccio Tatarella. Quando poi i figli adottivi di Almirante fallirono con la concessionaria di auto Lancia a Roma, furono salvati da Ligresti, che diede loro un’agenzia della Sai. Il male affonda lì. Sono moralista? Magari sì, ma a Milano, per vent’anni, tutto un mondo è stato nelle mani della famiglia La Russa».

Eppoi c’è un altro Ignazio, non quello della gioventù missina delle mazze prima né del doppio petto da avvocato poi, ma quello della maturità da viveur all’ombra del Cuppolone. «Un giorno nel pieno degli anni Novanta, Ignazio cerca Adolfo in ufficio e mi fa: “digli ad Adolfo che mi raggiungesse immediatamente all’Enoteca Capranica”. Mi chiede di accompagnarlo e al nostro arrivo troviamo sedute insieme a lui Naomi Campbell e Eva Herzigova, le top model più famose del mondo», ha raccontato Franco Fiorito l’ex sindaco di Anagni e consigliere regionale finito nella polvere per i soldi di Forza Italia usati come bancomat personale che prima di meritarsi la nomea canzonatoria di Batman sovrappeso era stato segretario di Adolfo Urso. C’è poi l’Ignazio ministro della Difesa, che ha fatto anche cose buone ma meglio lasciar perdere le conferenze stampa in inglese, e l’Ignazio tifoso pizzicato a usare un volo di Stato nel 2011 per andare a vedere la sua Inter. Che gli è costata anche un’altra gaffe, diciamo così: per la passione pallonara o per semplice gusto della provocazione, s’è fatto beccare a sfogliare La Gazzetta dello Sport mentre presiedeva l’aula del Senato.

Infine c’è l’Ignazio letterato che si diletta a scrivere e a leggere. «Non i saggi che mi stanno sulle palle, ormai voglio svago». Ma c’è stato anche il tempo dei classici, «Camus letto a 14 anni e i Veristi di cui sono fanatico: Verga lo so a memoria. Al Senato volevo citare Pirandello ma poi ho taciuto. Chi lo legge più?». Ignazio: uno, nessuno, centomila. Eppure sempre se stesso.