Quando non trionfano, procurano (finti) allarmi. Giorgia Meloni e Matteo Renzi, coetanei, hanno in comune un certo risibile languorino di autoritarismo, quello per cui lui si è già offerto di aiutarla a deturpare la Costituzione, accodandosi alla schiacciante maggioranza parlamentari […]

(DI DANIELA RANIERI – ilfattoquotidiano.it) – Giorgia Meloni e Matteo Renzi, coetanei, hanno in comune un certo risibile languorino di autoritarismo, quello per cui lui si è già offerto di aiutarla a deturpare la Costituzione, accodandosi alla schiacciante maggioranza parlamentare che presumibilmente permetterà a lei di fare senza referendum quello che a lui non riuscì, perché 20 milioni di persone gli sbarrarono la strada (su ordine di Putin, certo). Ulteriore conferma dai recenti sviluppi. Meloni, interrotta in ben sei occasioni durante i suoi comizi da qualche decina di persone coi cartelli recanti scritte violente ed eversive come “Prontə ad approvare il Ddl Zan e a legalizzare la cannabis”, alza il telefono e ordina al ministro dell’Interno Lamorgese di impedire ai contestatori di andare alle sue manifestazioni. A quanto pare “non consente”, “non permette” che si protesti democraticamente alle sue adunate (poi s’offende se la chiamano la Ducia), perché, dice, potrebbe scapparci il morto, e questa è “strategia della tensione”, nientemeno. Ma è lei, allora, che aizza i suoi elettori a menare contestatori pacifici?

Lamorgese aveva appena attaccato il telefono con un altro procuratore di allarme, Renzi, il quale s’era messo in testa che la frase di Conte “Renzi venga al Sud senza scorta a discutere di Reddito di cittadinanza” fosse un’incitazione a menarlo o ucciderlo, un messaggio “minatorio e persino politico mafioso”. Come tutti i sani di mente comprendono, il senso della frase era: “Renzi sul Reddito di cittadinanza la gioca talmente sporca che teme che la gente in condizioni di miseria gli meni; infatti questo miracolato, abituato a uscire dal retro degli edifici, al Sud viene scortato”. Comunque, a quanto pare i picciotti locali non hanno raccolto l’invito di Conte: al comizio di Renzi a Palermo, nel retro di un bar, c’erano quattro gatti e i candidati con le loro famiglie (cioè, non ci sono andati nemmeno i contestatori).

I due, tra i più giovani dell’arco parlamentare, intestatari di partiti personali tenuti su dalla sola impalcatura propagandistica, fanno i duri, ma sono mollissimi. Lui è abituato all’adulazione dei media, che scambia per consenso popolare; lei, al provvisorio trionfo datole dall’essere stata all’opposizione del governo Draghi. Quando la realtà incrina lo specchio del loro narcisismo, piagnucolano, alzano i toni, evocano terrorismo e mafia.

In effetti più che l’autoritarismo sembra che il loro tratto comune sia l’infantilismo. Quando non trionfano s’adontano, mettono il broncio. Lui, da presidente del Consiglio, a bordo di una Smart come Napoleone a cavallo, proclamava: “La mia scorta è la gente!”. Ben presto, dopo le europee vinte promettendo 80 euro in busta paga al ceto medio (a proposito del “voto di scambio” che imputa a Conte col Rdc), s’accorse che dovunque andava era costretto a scappare, e il tour in treno dovette farlo oscurando le soste perché la gente lo aspettava alle stazioni per dargli del buffone. La sua scorta, come racconta Ferruccio De Bortoli nel suo libro Poteri forti (o quasi), non solo non era “la gente”, ma si mise pure a minacciare i giornalisti. Adesso pure lui “non consente”, “non può accettare”. Lui, maestro dei colpi bassi, delle ripicche infantili, delle allusioni gravissime in campagna elettorale, finge di credere che Conti aizzi i contestatori ad attentare alla sua sicurezza. I due bambocci istituzionali fanno i capricci, chiamano la maestra.