Il molto ambizioso e poco colto Luigi Di Maio è uscito dal M5S dopo aver tradito i valori del Movimento – lotta all’evasione fiscale, impedire la lottizzazione partitica della Rai e delle Partecipate statali, eliminare i favoritismi e i privilegi della casta e del sottogoverno, ecc. – sui quali […]

(DI ANTONIO ESPOSITO – Il Fatto Quotidiano) – Il molto ambizioso e poco colto Luigi Di Maio è uscito dal M5S dopo aver tradito i valori del Movimento – lotta all’evasione fiscale, impedire la lottizzazione partitica della Rai e delle Partecipate statali, eliminare i favoritismi e i privilegi della casta e del sottogoverno, ecc. – sui quali aveva fondato, ingannando gli elettori, la sua incredibile ascesa politica che lo ha portato a occupare plurime, importanti poltrone ministeriali determinando, nel contempo, quale capo politico con pieni poteri, il tracollo del Movimento.

Uscito dal Movimento e fondato il suo “partitino” Impegno civico (leggi: “Impegno poltronaro”), il primo pensiero dello scaltro Di Maio è andato, per catturarne i voti, ai sindaci e alla loro “vita d’inferno”: “Ci dobbiamo assumere il coraggio e la responsabilità di mettere mano all’abuso di ufficio che costituisce la paura della firma per tanti sindaci. Aboliamo le dieci leggi che stanno rendendo un inferno la vita degli amministratori locali”. Si tratta dello stesso Di Maio che nel 2019, con fraudolenta recitazione, aveva così replicato all’incredibile proposta del Ministero dell’Interno Salvini di abrogare il reato di abuso di ufficio: “L’abuso di ufficio è un reato in cui cade spesso chi amministra, è vero; ma se un sindaco agisce onestamente non ha nulla da temere. Non è togliendo un reato che sistemi le cose”.

Ora, in merito all’abuso di atti di ufficio, va ricordato che la norma di cui all’art. 323 c.p. fu lo strumento giuridico che consentì ai pretori di contrastare efficacemente la dilagante speculazione edilizia che, negli anni 70-80, aggredì gran parte delle coste italiane mediante la realizzazione di ville, alberghi, residence e vaste lottizzazioni con licenze (oggi: “concessioni”) illegittime, che i pretori ritennero “tamquam non essent”, con la duplice conseguenza che fu possibile contestare al privato, pur munito di licenza, il reato edilizio e al sindaco quello di abuso di atti di ufficio per avere autorizzato un’opera in violazione alla legge e ai regolamenti edilizi, punendo, così, il disinvolto uso di rilasciare licenze illegittime, il più delle volte finalizzate al voto di scambio, se non alla corruzione. Il reato di abuso di ufficio fu anche il grimaldello che consentì al pool di Mani pulite di scoperchiare Tangentopoli perché, partendo dalla contestazione dell’abuso del Pu, fu possibile ai pm pervenire, nel corso delle indagini, ad accertare una serie incredibile di episodi corruttivi, concussivi e di turbativa d’asta. Fu per questi motivi che i partiti corsero ai ripari facendo adottare dal Parlamento una legge (n° 234/1997) che ridusse l’ambito di applicazione dell’art. 323 c.p., così consentendo l’archiviazione di vari procedimenti in corso per abuso anche a carico di esponenti politici di primo piano.

Vi è stata, quindi, nel tempo, una pervicace avversità dei politici nei confronti di tale reato, tanto da indurli a modificarne legislativamente, più volte, la struttura onde limitarne il più possibile l’ambito di applicazione per ridurre gli effetti penalmente pregiudizievoli per il pubblico ufficiale che abusava dei propri poteri. Così come ancora è avvenuto col Dl 16/7/2020 n° 76, con il quale si è ristretto notevolmente il perimetro di applicazione dell’art. 323 c.p.: con le modifiche apportate, l’ambito oggettivo di applicazione della fattispecie è circoscritto poiché non sono più penalmente sanzionati comportamenti di violazione di norme regolamentari (ad es. i regolamenti comunali), ma solo di “specifiche regole di condotte” previste da norme di rango primario con la esclusione anche della violazione di principi generali che non integra più il reato in questione. Orbene, se l’essenza dell’abusare del proprio ufficio da parte del pubblico ufficiale si sostanzia nella violazione dei doveri costituzionali di imparzialità e buon andamento della PA ex art. 97 Cost., bisogna concludere che l’attuale previsione normativa non consente la repressione degli odiosi comportamenti che dalla violazione di quei doveri possano scaturire.

Evidentemente neanche tale grosso “salvataggio” di amministratori basta al “furbo” Di Maio e si spera, che a settembre, l’elettorato voglia punire il “traditore” restituendolo al Paese di provenienza (Pomigliano D’Arco) ove si impegni a trovare stabile e definitiva collocazione lavorativa.