Una risposta a De Masi. Il sociologo scrive delle “società libere di essere infelici”. Ma io credo che ciò sia dovuto all’edonismo straccione contemporaneo, che ormai è stato scambiato per felicità. La felicità è un sentimento puramente individuale […]
(Massimo Fini – massimofini.it) – “Se il comunismo è vittima del suo insuccesso, il capitalismo lo è del suo successo” (Il ribelle dalla A alla Z). In un lungo articolo pubblicato sul Fatto (“Le società libere di essere infelici”, 21.05) Domenico De Masi scrive che “non c’è progresso senza felicità”.
È curioso, strano addirittura, che un sociologo sperimentato come De Masi si infogni in un concetto come quello di felicità che sfugge a ogni catalogazione sociologica. La felicità è un sentimento puramente individuale: “Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità” (Cyrano, Massimo Fini). Se la felicità non è individuabile esistono però dei presupposti per favorire il suo contrario. Stanno tutti nella convinzione dell’uomo moderno, illuminista, progressista, postindustriale, che esista un diritto alla felicità, collettiva e individuale. Per la verità i nostri più immediati progenitori non furono così sciocchi: nella Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776 si parla di un diritto alla ricerca della felicità che però l’edonismo straccione contemporaneo ha introiettato come un vero e proprio diritto alla felicità. E pensare che l’uomo abbia un diritto alla felicità significa renderlo ipso facto, e per ciò stesso, infelice. La sapienza antica, non solo quella raffinata della grecità, ma la più semplice sapienza contadina, a cui De Masi nega diritto di cittadinanza, era invece consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che viene in più è un frutto insperato e ce lo si può godere.
De Masi sembra legare l’ineffabile felicità, se non proprio alla ricchezza, alla possibilità di produrre infiniti, e sempre più allettanti, beni di consumo. Insomma al progresso. E se il progresso, pur con la sua cornucopia di beni, non è riuscito per ora a creare un mondo di persone felici è perché si è realizzato, nel cosiddetto “mondo libero”, attraverso ineguaglianze intollerabili (il sociologo mi perdonerà se semplifico il suo pensiero). Ma è proprio la filiera produzione-consumo su cui si basa il nostro modello di sviluppo a creare sotto l’aspetto del benessere una società attraversata da un profondo malessere.
Partiamo dalle cose più semplici. Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici del capitalismo e dell’industrialismo, sostiene, considerandola come cosa positiva, che il progresso del “mondo libero” è basato sulla competizione e quindi sull’invidia. Usando le sue parole: “il vagabondo invidia l’operaio, l’operaio invidia il capofficina, il capofficina invidia il dirigente, il dirigente invidia il padrone che guadagna 1 milione di dollari, chi guadagna 1 milione di dollari invidia colui che ne guadagna 3”. Insomma non c’è mai un momento di equilibrio, di riposo, di pace, di serenità. È la posizione di Silvio Berlusconi che rappresenta al meglio il dramma dell’uomo moderno. E l’invidia non è certamente un sentimento che fa star bene colui che ne è posseduto. Le cose andavano meglio, dal punto di vista psicologico, nella società feudale, premoderna, preindustriale. Quella società era divisa in caste impermeabili. Ma non è colpa mia se non sono nato Re, se non sono nato nobile, quelli partecipano a un altro campionato che non mi riguarda. E quindi io, contadino o artigiano che sia, vivo in un mondo di pari, sia nel di qua che nell’aldilà dove “ ’a livella”, come la chiamava Totò, finisce per eguagliare tutti, anzi è più dolorosa per chi credette di viver bene (“Prelati, notabili e conti / Sull’uscio piangeste ben forte / Chi bene condusse sua vita / Male sopporterà sua morte / Straccioni che senza vergogna / Portaste il cilicio o la gogna /Partirvene non fu fatica / Perché la morte vi fu amica”, Fabrizio De André, La morte).
Ma veniamo alle cose concrete, quantitative, misurabili anche dai sociologi e dagli statistici. Nel 1650, un secolo prima del take off industriale, i suicidi in Europa erano 2,6 per centomila abitanti, nel 1850, con statistiche certamente più accurate, erano 6,9 per centomila abitanti, triplicati, oggi sono mediamente vicini a 20 per centomila abitanti, quasi decuplicati. E il suicidio non è ovviamente che la punta di un iceberg molto più profondo. Nevrosi e depressione sono malattie della modernità. Negli Stati Uniti, il Paese più ricco, più forte del mondo, che gode di rendite di posizione che gli derivano dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, più di un americano su due fa uso abituale di psicofarmaci, cioè non sta bene nella propria pelle. Il fenomeno devastante della droga, nel Medioevo inesistente, in seguito riservato alle élite intellettuali, oggi coinvolge ogni classe sociale, soprattutto i giovani ed è sotto gli occhi di tutti. Sono cose su cui varrebbe la pena riflettere invece di continuare a credere ostinatamente, con l’ottuso ottimismo di Candide, di vivere nel “migliore dei mondi esistiti finora”.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’avanzatissima Europa è la regione del mondo dove avvengono più suicidi, 15,4 ogni centomila abitanti, mentre il Mediterraneo orientale è la regione dove ne avvengono meno. Nella bistrattatissima Africa, che da quando abbiamo cominciato ad “aiutare” per inserirla nei nostri mercati si è ulteriormente impoverita (migrazioni docent), la percentuale dei suicidi è del 7,4 ogni centomila abitanti, la metà di quella europea. In Italia il primato dei suicidi spetta alle regioni meglio organizzate, la Lombardia e l’Emilia-Romagna. Per i disturbi psichiatrici fra le regioni in testa figura sempre la Lombardia insieme alla civilissima Toscana, mentre la Campania, di cui continuamente segnaliamo le disastrose condizioni economiche e soprattutto sociali, occupa il penultimo posto.
C’è quindi del marcio nel “regno di Danimarca”, nel nostro modello di sviluppo che dopo averci promesso, propagandandolo su ogni suo media, uno straordinario benessere, si è rivelato portatore di un ancor più straordinario malessere.
Nella chiusa dell’articolo De Masi mette nella sua lista nera “tutti coloro che negano l’esistenza stessa del progresso”. Io appartengo a questa “colonna infame”. Ma sono in buona compagnia. Joseph Ratzinger, quando era ancora cardinale, ha scritto: “Il progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano”.
Ottimi spunti di riflessione.
Ma l’impressione è quella di essere saliti su una macchina dalla quale è impossibile scendere.
E che che si guida da sola.
Per dove, chi lo sa?
Ma, per evitare il peggio, provare a dare almeno qualche robusto scossone, è d’obbligo.
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Nel 1800 si discusse sul diritto alla ricerca della felicità…ben altra cosa è l obbligo ad essere felici!! Infatti talmente felici che 2 su
3 si spaccano di psicofarmaci alcool e droghe!! Ma non ditelo a nessuno…segreti di stato
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Che meraviglia
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Grazie Massimo, leggerti fa bene. Niente felicita’, pero’ !!
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Il nostro modello di sviluppo, nonostante i suoi molteplici lati positivi, sotto l’aspetto della emancipazione umana, anziché felicità (come dice Fini), “si è rivelato portatore di un ancor più straordinario malessere”; non solo ai meno abbienti, ma anche alla casta dominante dei capitalisti e manager di oggigiorno.
Giacché se si guarda indietro nella storia, balza agli occhi che nessuna casta dominante ha mai condotto una vita così dipendente e misera come quella di oggi, sempre sotto pressione… volta alla incessante produzione di ricchezza, ove non ci si cura di realizzare una vita a misura d’uomo, ma di produrre e consumare sempre di più, sempre di più, per raggiungere guadagni sempre più cospicui e per accumulare ricchezze sempre più ingenti.
Qualsiasi feudatario medievale avrebbe profondamente disprezzato queste persone. Infatti, mentre essi potevano abbandonarsi all’ozio e dissipare, più o meno orgiasticamente, le loro ricchezze, le élites dominanti di oggi (dal dinamismo paranoico e la competitività senza quartiere) non possono concedersi nessuna pausa. E quando se la concedono, sanno soltanto ridiventare infantili quanto superficiali; l’ozio, il piacere della conoscenza e il godimento dei sensi sono loro tanto estranei quanto al loro materiale umano. Essi stessi non sono altro che schiavi del loro stesso potere. Semplici élites funzionali all’irrazionale fine in sè della società del progresso del malessere.
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Leggere Il Fatto Quotidiano è un privilegio raro.
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Il capitale ha fatto della felicità una sua particolare industria , conglomerando all’interno dei suoi dettami ogni particella e pulsione vitale, dai parchi giochi alle obbligate vacanze, dai consumi acellerati alla ricerca del superfluo come modo distinto di uscire dal gregge per un attimo, ma sempre e solo attraverso acquisti e quindi conseguentemente attraverso l’uso capione del denaro.
In realtà se si osserva meglio queste realtà sono sempre usufruite da singoli e nonostante un ottimo contorno di prospettiva la felicità si gioca da soli.
Cosa ci sia di felice nell’esserlo in solitudine o nel credere di esserlo rende ancora più effimero un sentimento di per sé transitorio.
La felicità credo che appartenga solo al mondo dell’infanzia a meno di una maturità illuminata dove anche nel dolore più profondo si può intravedere un velo di luce che porta a sorridere.
Strano, ma neanche più di tanto, che non ci si sia liberati da queste divulgazioni a sfondo evolutivo e materialista che niente hanno a che vedere con il vero evoluzionismo , preso a prestito per rimarcare che una società industriale o post industriale deve essere felice per forza dal momento che non manca niente e forse, è proprio l’assenza di quel niente che ha reso sterile ogni ricerca umana compresa la felicità che, pur con tutti i soldi del mondo non si può comperare.. o forse sì, in relazione agli stadi di abbrutimento conseguenti l’opulenta maschera di chi ha il denaro ha anche tutto il resto.
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@Kilio intervento interessante, degna di nota la definizione “uso capione del denaro”, metro stesso della capacità di acquisto della felicità medesima, “sua particolare industria”. Resta il fatto che quando ottieni il bene materiale tanto agognato, pubblicizzato e spinto dall’industria, la felicità non è raggiunta; la felicità del capitale e del consumismo è solo desiderio, non si completa nell’atto o nel possesso. Quindi non può esserci alcuna felicità nell’oggetto sponsorizzato.
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Si, credo che tu abbia colto il nesso della filosofia dei lodi, in quanto tutto il mercato si basa su di uno scambio di prodotti molti dei quali alimentari e domestici, verso il massimo monopolio del sistema industriale capitalistico per la pi 2 di berlusconiana memoria con la sua ATTUALE IPER INdusSTRIALUZZAZIONE DEL CIBO e movimenti economici semprel più ampi e bloccati, questi iper mercati sono un artificio secondario dei programmi ma comunque legato a mo’ di cordone ombelicale, sempre più mostruoso e mitologico, primitivo e primordiale, di conquiste predatorie di ciò che viene considerato BENE COMUNE, legato quindi allo spolpamento delle casse e dei patrimoni pubblici .
Or bene oltre alla giga e ad altri orifizi credo che non di sia più nulla, a, sì forse un microchip per essere i cani guardiani di ciò di cui non ci apparterrà più niente.
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“il sociologo mi perdonerà se semplifico il suo pensiero”
Conoscendo il “pensiero” di De Masi, Fini non l’ha solo semplificato, ma l’ha completamente stravolto.
E comunque, sociologicamente, il concetto di felicità esiste e credo che si misuri con alcuni parametri, al posto del Pil: il cosiddetto Fil, felicità interna lorda.
Ovviamente credo che questi “misuratori” non corrispondano a ciò che intendiamo comunemente…
Credo che De Masi avesse tutt’altro intento, rispetto a ciò che gli viene attribuito da Fini, il cui pessimismo esistenziale è noto, e sia invece molto più vicino a concetti di equità sociale e sviluppo dei rapporti umani. Qualcosa di più simile ai concetti meravigliosamente espressi da Beyond…
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Io penso che un tempo andasse molto peggio. Ma siccome quasi nessuno sapeva leggere, ci si spaccava la schiena nei campi e nelle fabbriche, si moriva di parto al settimo figlio e di tubercolodi a 40 anni, non c’era tempo per accorgersene.
Certo che se sentiamo ovunque che siamo “infelici, soli, …” a forza di sentirlo dire…
Si era tanto felici un tempo? Ci si voleva tutti così bene? Mah.
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Uno degli elementi più tristi di questa epoca è l’assenza di un rinnovamento strutturale profondo delle nostre comunità così strettamente connesse ai flussi di capitale e alle sue oscillazioni. Le istituzioni sono vecchie arcaiche e forse questo aspetto da Ancien regime è ciò che le legittima sull’altare della storia patria e allo stesso tempo le salva ; ma il capitalismo che sta innervando anche i nostri corpi, le ha corroborate profondamente e ingiustamente falsificate nella loro missione originaria, applicandovi quel surplus immaginario che se da un lato accende i fari della ricchezza e delle possibilità dall’ altro li spenge per l’impossibilità di distribuire ricchezza in modo equanime.
E credo, anzi lo penso fermamente, che ad oggi si sia già oltre questa frontiera e che il capitalismo , nutrito e pasciuto, si stia già nutrendo di tutto ciò che investe e ingloba nel suo cammino al quale aprono porte prima sigillate e protette almeno dal veto della decenza.
Oltre questa impensabile autofagia si può prospettare anche una fine.
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Occorre sempre stare attenti con gli “O tempora, o mores!”
E’ una frase che ripetono da millenni, ormai.
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