(Tommaso Labate – il Corriere della Sera) – Nel ristrettissimo pacchetto di mischia in cui si disegnano le tappe della corsa di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica, in cui c’è chi si muove anche in autonomia rispetto alla presidenza del Consiglio, hanno idealmente consegnato le tessere onorarie «uno» e «due» dell’intera operazione.

La prima è finita nel taschino di Luigi Di Maio, la seconda l’ha presa Giorgia Meloni. Perché sarebbero loro due, ragionano all’interno del Consiglio dei ministri, le punte di diamante della politica che possono trasferire l’operazione «Draghi for president» dal foglietto di carta alla realtà.

Ma se la leader di Fratelli d’Italia sogna un trasloco del premier da Palazzo Chigi al Quirinale perché lo considera un mezzo lasciapassare alle sue ambizioni future da presidente del Consiglio – il ragionamento in voga dentro Fratelli d’Italia è che nessuna cancelleria europea, con Draghi al Quirinale, avrebbe più nulla da eccepire – il primo ragiona in vista di un futuro molto più prossimo.

E così, a dispetto dei tantissimi critici che pochi euro avrebbero scommesso sul suo futuro, l’alba del 2022 consegna a Di Maio la nomination del «papabile» alla presidenza del Consiglio. Nel caso in cui, ovviamente, il posto tra qualche settimana si ritrovasse vacante. Consapevole della storica opportunità che potrebbe palesarglisi davanti, pronta solo per essere raccolta, il ministro degli Esteri ha impostato sul navigatore la modalità «palombaro», quella propria dei veterani della Repubblica: profilo bassissimo, navigazione subacquea, meglio una mossa in meno che una in più, una parola in meno e non una in più.

«Se Draghi venisse eletto al Colle», ragiona un ministro che non è del suo partito, «la Lega uscirebbe dalla maggioranza: a quel punto, dovendo sopportare il fardello dell’ultimo anno di governo prima delle elezioni, la politica rivendicherebbe per sé il posto di primo ministro evitando in tutti i modi l’arrivo di un altro tecnico».

E se ci punta Dario Franceschini per il Pd, perché non Di Maio, che conta sul supporto del primo gruppo parlamentare? In un cursus honorum che dura dal 2013, Di Maio ha messo nel palmares qualcosa di più della vicepresidenza della Camera, della leadership politica del Movimento Cinquestelle, del ministero dello Sviluppo economico e della guida della Farnesina, che pure messe insieme fanno un curriculum di tutto rispetto per un under 40. La lezione più importante che ha imparato è che gli errori in politica si possono fare «ma non rifare», come dice spesso in privato.

Lui, di errori da non ripetere, ne ha collezionati parecchi, alcuni dei quali messi in fila nella sua autobiografia: non uscirebbe sul balcone a celebrare ai quattro venti l’abolizione della povertà, non chiederebbe l’impeachment del presidente Sergio Mattarella, non si farebbe fotografare con i gilet gialli e non offrirebbe più in pasto all’opinione pubblica i giudizi taglienti che ha riservato ai suoi avversari.

Perché sono proprio i suoi (ex) avversari ad aver irrobustito lo standing di Di Maio rendendolo quello che è diventato: Silvio Berlusconi lo stima (i due si sono parlati più volte per telefono), con Giancarlo Giorgetti mangia la pizza, con Giorgia Meloni si sentono spesso e pure con Matteo Renzi s’ è creato un rapporto consolidato. «Fate caso», spiega un amico stretto del ministro degli Esteri, «a com’ è cambiata l’immagine di Luigi senza che nessuno se ne rendesse conto.

Era il bersaglio umano degli attacchi ai Cinquestelle, il meme dei social network sul “bibitaro” dello Stadio San Paolo; adesso invece nessuno lo attacca più. Ed è successo da un giorno all’altro». Dalla «vecchia politica», come l’avrebbe chiamata un tempo, Di Maio ha imparato la lezione – decisamente diffusa nei partiti della Prima Repubblica – «che gli avversari stanno fuori dal partito e i nemici dentro».

Per questo, in fondo, ha lasciato che Conte gli subentrasse da capo politico convinto che in quel ruolo, stretto da Grillo e i gruppi parlamentari, si sarebbe logorato. È successo oppure no? Di Maio, in cuor suo, è convinto di sì. Prendere il posto ch’ è stato dell’Avvocato del popolo, dopo che l’Avvocato del popolo ha preso il suo, sarebbe la più dolce delle vendette. Servita tiepida.