Il sindaco di qua, il governatore di là, Goffredo Bettini (e Claudio Mancini) sullo sfondo. Squadre, interessi, immobilismi, colpi bassi. Lo scontro sotterraneo nel partito romano anticipa le prossime divisioni nazionali

(Susanna Turco – espresso.repubblica.it) – I segnali per il momento sono sottili, ma fanno già dire ai più sensibili e accreditati sismografi umani dei Palazzi che «a Roma sta per esplodere una guerra spaventosa». Esagerazioni, forse, eccitazioni alla vigilia della rincorsa per la battaglia del Quirinale. Eppure, chi sabato 6 novembre era presente al pranzo a La Storta, Agro Romano oltre il Raccordo anulare, due-trecento persone a celebrare con il dovuto ossequio i 69 anni di Goffredo Bettini, esponente del Pd del quale bisognerebbe cominciare a collezionare le apposizioni giornalistiche inventate per descrivere un ruolo mai formalizzato (tra le ultime: «nume elusivo», «gran vizir», «regista di trame vere o presunte», «press agent di se stesso»), tra la magnum di champagne rosato e i vassoi di porchetta, poi raccontati da Monica Cirinnà, ha visto chiaramente la freddezza di due mondi. Quella del neosindaco Roberto Gualtieri e quella del governatore Nicola Zingaretti. Chiusi ciascuno nel proprio entourage, non si sono parlati mai. L’ex ministro fuori in giardino, silenziosissimo. L’ex segretario dem barricato dentro la villetta a due piani dell’ex autista di Bettini ospite del festeggiamento, tanto da far sorgere dubbi sulla sua presenza. «Ma Nicola c’è?», ha domandato a un certo punto Dario Franceschini, ministro della Cultura.

Ecco la vera notizia, a sentire alcuni, era proprio questa: nel nome di Bettini «sono state presenti due anime che, in verità, ormai si odiano». E se si odiano, è il sottinteso, diventa un problema. Insomma: altro che trame per il Quirinale, suggestione giornalistica di scarsa consistenza ma così ben mirata da far dire a Dagospia che Goffredo Bettini è ormai capace di auto promuoversi «mejo di Enrico Lucherini», gran ciambellano degli uffici stampa. Basti dire che due tra i principali ingredienti della presunta trama e inciucio non si sono neanche mescolati fra loro: Gianni Letta, consigliori di Silvio Berlusconi, ha presenziato i pochi minuti necessari a sentire il discorsetto di Bettini, amico d’antica data; il capo dei 5 Stelle Giuseppe Conte, frequentazione di nuovo conio e descritto peraltro come assai in imbarazzo, è arrivato quando l’altro era già andato via. Non il Colle ma la freddezza è, dunque, la novità più succulenta: e l’assenza di Letta nipote, il segretario dem, lontano per un precedente impegno in Toscana, ne è in qualche modo un suggello.

Un altro segnale nello stesso senso, più concreto, era arrivato venti giorni fa, all’indomani della vittoria al ballottaggio: nella prima uscita da sindaco, Roberto Gualtieri aveva fatto solo un nome per la sua squadra ancora tutta da comporre, quello di Albino Ruberti come capo di gabinetto al Campidoglio. Ruberti, che svolgeva lo stesso ruolo alla Regione, era stato inviato da Nicola Zingaretti a lavorare nel comitato elettorale, ad allungare la mano su una campagna fin lì non scintillante e su un candidato sindaco che non era certo stato il suo (anzi: Zingaretti si è dimesso dalla segreteria dem proprio nel giorno in cui si è concretizzato il nome dell’ex ministro dell’Economia, poche ore dopo il suo primo sì davanti a un caffè a piazza Sant’Eustachio). Risultato: Ruberti, già capo di Zetema per 15 anni, che da braccio destro di Zingaretti s’era fatto beccare in piena pandemia a fare un pranzo collettivo («di lavoro» si difese, ma fu multato) in terrazza il primo maggio nonostante il lockdown, adesso è passato a lavorare con Gualtieri. E Zingaretti non è stato neanche preavvertito dell’unico annuncio fatto dal neosindaco. Una zampata di sicurezza rara, per un uomo come l’ex capo del Mef di solito talmente prudente da interrompere le dichiarazioni ai cronisti per andarsi a ricontrollare personalmente il programma in auto, anche a pochi giorni dal voto, pur di non rilasciare alla stampa dettagli imprecisi.

Ora, naturalmente il passaggio di Ruberti può essere raccontato, per chi ci crede, come prova di grande sintonia e integrazione, mentre è vero il suo lato oscuro: poteri che confinano, che insistono sugli stessi territori. Mondi e gruppi tra loro rivali, quello di Zingaretti e quello di Claudio Mancini, parlamentare, ras del Pds-Ds-Pd romano e regista dell’operazione Gualtieri (per dire: stava chiuso in una stanzetta a depennare ed emendare le liste, esattamente come Goffredo Bettini ai tempi di Walter Veltroni). Ancora più in movimento adesso che su Roma piovono l’Expo 2030, il Giubileo 2025, oltre naturalmente alla gestione dei soldi del Pnrr. Lo si vede anche dalla battaglia già iniziata sottotraccia per il dopo Zingaretti alla Regione Lazio: gli uni fanno il nome di Alessio D’Amato, assessore regionale alla Sanità; gli altri quello di Enrico Gasbarra, europarlamentare, già presidente della Provincia con Goffredo Bettini deus ex machina per la comunicazione e che, dopo un lungo silenzio, è ritornato su qualche mese fa, a sponsorizzare l’asse tra Conte e i 5 Stelle.

Pur trattandosi della Capitale, tutta questa potrebbe essere derubricata a questione locale. Ma invece proprio il Pd romano intreccia e spesso coincide a tal punto con il Pd nazionale da diventarne una continuazione, uno specchio, un esempio, non certo il più fulgido. Era così ai tempi di Veltroni e D’Alema, adesso nell’era della Capitale cartolina del G20 e del romano Mario Draghi a Palazzo Chigi lo è se possibile ancora di più.

Allo scorrazzare più o meno guerresco, nelle stanze del Nazareno, delle varie correnti incrostatesi negli anni – mentre Enrico Letta si scervella per capire come smontarle – corrisponde, pari pari, il circolare delle correnti di rito romano, tanto impetuoso quanto nel suo insieme immobile, come un girone dantesco. Basti dire che pure la complicata costruzione della giunta Gualtieri è stata composta proprio nelle stanze del Nazareno: le stesse dove nel 2015 si guidò il rovesciamento di Ignazio Marino. Alla fine, il livello non certo da supereroi degli assessori ha un suo perfetto pendant nella certosina composizione da manuale Cencelli: dalla franceschinana Silvia Scozzese al già rutelliano Eugenio Patané, passando per il trasversale e discusso Alessandro Onorato – che l’altra volta s’era candidato con Alfio Marchini e stavolta doveva correre con Carlo Calenda – non manca davvero nessuno. Una filiera talmente ricostruibile che per alcuni è girata persino sui social la soddisfazione dei rispettivi padrini di nomina: ad esempio Paolo Ciani, segretario di Demos e consigliere regionale, quello di «congratulazioni e auguri» a Barbara Funari, coordinatrice romana dei demosolidali e adesso assessora alle politiche sociali; per la sinistra, Massimiliano Smeriglio ha pubblicato la foto con Andrea Catarci di Liberare Roma, «compagno di una vita e amico fraterno», già presidente al municipio della Garbatella, adesso nominato assessore con l’improbo compito attuare lo slogan su «Roma in quindici minuti» (auguri vivissimi).

Un modello, a suo modo. Un modello però opposto a quello, pure trasversale, che ha animato ad esempio la costruzione della giunta bolognese di Matteo Lepore. Se a Bologna si è disarticolato, infatti, il vecchio schema, a Roma al contrario il vecchio è stato riproposto. Pari pari. Dritto dall’era pre-grillina di Virginia Raggi. Come se nulla fosse stato costruito nel frattempo. Nessun mondo di mezzo: in senso buono, stavolta. È proprio quello che ha spinto a protestare in strada, con tanto di incatenamento, un po’ come ai tempi di Occupy Pd, i Giovani democratici di Ostia. I due consiglieri municipali più votati del X Municipio. Margherita Welyam e Raffaele Biondo, quasi novecento preferenze (lei era stata l’unica eletta dem nella giunta precedente, sbaragliando manco a dirlo il candidato scelto dall’apparato), si sono incatenati davanti al Municipio e poi si sono accampati sotto al Nazareno, contestando alcune scelte di giunta del neo mini-sindaco, Mario Falconi, in tre casi identiche a quelle fatte a suo tempo da Andrea Tassone, condannato in via definitiva nell’inchiesta Mafia Capitale. Durissime le parole scelte con cura per raccontare «lo scempio figlio della peggior politica»: i giovani dem hanno accusato un Pd dove vige la «tracotanza mista a paternalismo correntizio e conservatore», che «nulla ha imparato dal passato», che «non ha il coraggio di guardare avanti» e che «mette a primo posto gli interessi personali, i giochi di potere di ormai deboli capibastone a scapito del territorio». Una denuncia lucida e talmente carica di significati che Enrico Letta si è risolto a prendere direttamente in carico il caso, incontrando i protagonisti della protesta. Epperò questo è accaduto proprio nei giorni in cui, per sostituire ai vertici di Ama, municipalizzata dei rifiuti di Roma il dimissionario Stefano Zaghis, nominato nel tempo grillino, Gualtieri ha scelto Angelo Piazza, 66 anni, docente universitario, oggi nel cda di Ita, nell’organismo di vigilanza di Leonardo Spa, ieri ministro della Funzione Pubblica nel governo D’Alema I. A proposito di nuovo che avanza, sin dagli anni Novanta. Quanto all’intreccio tra Roma e il resto del mondo, tra locale e nazionale: per Zingaretti si tenta di costruire un futuro da ministro, risultando di nuovo (ma a questo punto forse non inspiegabilmente) impervio il cammino verso la Camera, nelle suppletive che serviranno a sostituire Gualtieri.