(di Andrea Scanzi) – È un momento di noia e (lunga) stanca nella politica. Questa settimana, più che un identikit singolo, facciamo quindi una ricognizione generale.

Draghi. Celebrato, adorato, venerato. Tutto quello che fa, a prescindere, è buono o giusto. “Draghi santo subito!”. La solita vecchia storia del giornalismo italiano che, troppo spesso, più che cane da guardia della democrazia è cane da riporto del potente. Al tempo stesso, chi lo critica perde spesso la misura e lo cannoneggia oltre le sue colpe effettive. Draghi non ha fatto miracoli e non ha fatto disastri. Più che altro ha sfruttato il lavoro del precedente governo, che invece – per gli stessi giornalisti – aveva la rogna sempre. Draghi è l’uomo ideale per i voleri della destra tecnocratica. In questo è bravissimo. Il problema non è lui, ma casomai chi sta dentro un governo che gli somiglia pochissimo.

Letta. Troppo timido. Ci ha messo anni a dire che con Renzi non si poteva più recuperare il rapporto (lo ha detto dopo la Waterloo sul ddl Zan), salvo poi ricominciare con la litania insopportabile dell’“alleanza larga”. È incredibile come una persona seria e intelligente come Letta non abbia ancora capito chi sia Renzi. O magari l’ha capito benissimo, però fa finta di niente per non dimenticare i tanti renziani ancora dentro il Pd. Nel frattempo i sondaggi dicono che il Pd sta benino, ma se al Nazareno pensano che sia già tutto risolto allora son proprio bischeri.

Conte. Non ha colpe sui risultati assai mesti alle Amministrative, ma non ha ancora dato la svolta radicale al M5S che lui per primo vuole attuare. È presto, siamo d’accordo, ma allo stato attuale quel 16-17 per cento disposto a votare i 5 Stelle lo farebbe più che altro per stima e affetto nei confronti di Conte. E il mito personalistico, da solo, non basta per edificare una realtà partitica consolidata.

Meloni.È incredibile come questa donna, tutt’altro che stupida o ignorante, abbia sbagliato tutto dall’inchiesta di Fanpage in poi. La difesa a spada tratta dell’improponibile Michetti, da lei imposto non si sa su quali basi. Le frasi minimizzanti su Fidanza, la belinata del “non conosco la matrice” dopo le violenze fasciste a Roma. Il patetico “Yo soy Giorgia” a Madrid. Le frignate sui social per gli insulti ricevuti (lei che sui suoi profili, come noto, ospita soltanto intellettuali oxfordiani). Le baracconate sul ddl Zan. Eccetera. Per non parlare poi della “classe dirigente” del suo partito, pieno com’è di Santanchè e Donzelli qualsiasi. Disastro.

Salvini. Verrebbe voglia di non menzionarlo neanche e di ricordarlo politicamente da vivo, ma la vergogna della destra (Lega in testa) sul ddl Zan rimarrà una delle pagine più vomitevoli nella storia del Parlamento. Un leader in caduta libera, che continua però a fare più danni di Renzi.

Renzi. No: Renzi fa molti più danni. La Diversamente Lince di Rignano resta la più grande sciagura politica della Seconda Repubblica. È indagato e invoca l’immunità parlamentare. Va a braccetto con Miccichè. Quando si vota il ddl Zan vola in Arabia Saudita. La sua è un’escalation al contrario da record. Se vuole ambire a stare sui coglioni agli italiani più del Covid, è vicinissimo al traguardo.

Calenda. Chi?

Paragone. Lo vedrei bene come leader del partito Tso. Ancor meglio se riuscisse a coinvolgere nel progetto politico Donato, Meluzzi, Ronnie, Brigliadori, il brainstorming di IoApro e “Kierkegaard” Montesano. Sarebbe leggenda.

Bersani. Al Quirinale subito.

L’Italia. Al capolinea da un bel pezzo.